Schematizziamo un po’. Di là c’è il declino, di
qua la ripresa. Di là la competizione globale perduta, di qua il
riscatto industriale. Di là il lamento sulle piccole imprese spazzate
dalla concorrenza cinese, di qua la forza di imprese divenute medie e capaci
di aggredire nuovi mercati. Di là «l’addio alla dolce
vita», di qua «le schegge di vitalità economica».
Di là l’Economist, di qua il censis. Ma non semplificheremo
sino al punto di sostenere che di là c’è l’Unione
e di qua la Casa delle Libertà, anche se il centrosinistra ha impostato
la sua campagna elettorale sul lamento autocompiacente dei tempi magri e
il centrodestra sulla bontà di un miracolo economico oggi difficile
da rintracciare. Fatto sta che l’Italia si avvia alla campagna elettorale
per rinnovare Parlamento e governo dipinta con colori diversi da due “istituzioni”
europee: usa colori cupi il più autorevole settimanale economico
continentale, tinteggia con colori pastello il più accreditato centro
studi italiano. Nessuna delle due “istituzioni” può essere
tacciata di parzialità. Vero che l’Economist rappresenta gli
interessi dell’establishment finanziario britannico, ma non v’è
dubbio che quando si passi dai commenti alle analisi sul campo, il magazine
londinese rappresenti un punto di riferimento irrinunciabile. Così
come i sospetti per una certa accondiscendenza del censis verso la realtà
nazionale che osserva, vengono dissipati da decenni di indagini serie e
precise che hanno sempre segnalato, e spesso anticipato, le tendenze della
società italiana.
Gli italiani, depressi dai reportage dell’Economist, sperano che il
censis abbia saputo trovare nelle pieghe nascoste del nostro paese quegli
elementi di riscatto che fanno sperare in un futuro migliore. Si augurano,
insomma, che se il settimanale inglese è stato capace di sintetizzare
nel declino il presente e il recente passato, cioè i venti anni che
separano questo 2006 dai tumultuosi e vincenti (ma chissà perché
a sinistra sempre vituperati) anni Ottanta, l’istituto italiano abbia
pescato ancora una volta le carte giuste per anticipare il futuro e tingerlo
di pacato ottimismo. Il Rapporto annuale 2005, presentato nei primi giorni
dello scorso dicembre, indica dunque la prossima fine del tunnel, la voglia
di ripresa che poggia non tanto su semplici aspettative ma su dati reali
che la società e l’economia italiane hanno saputo realizzare
nel pieno di questi anni difficili. Sono segnali incoraggianti, che impregnano
le attività del mondo economico e imprenditoriale tanto quanto le
organizzazioni, le famiglie, i gruppi sociali e che la politica deve saper
leggere, interpretare e rappresentare. Lo devono fare entrambi gli schieramenti
se vorranno offrire un programma di governo che incontri le attese degli
elettori, tanto più che la politica sembra sempre più autoreferenziale
e sorda rispetto ai movimenti della società.
Si potrebbe quasi sostenere, in Italia come in altre parti dell’Europa,
che la società si muova e cresca in assenza di politica, nonostante
la politica, al di fuori di essa. È accaduto in Germania (come abbiamo
documentato nello scorso numero), dove le imprese si sono ristrutturate
senza attendere le riforme tardive del governo Schröder e si sono attrezzate
per affrontare i tempi nuovi della concorrenza globale. Accade in Italia,
dove nascono nuove piccole imprese capaci di ritagliarsi mercati di nicchia
e di qualità (a dispetto della nuova moda di considerarle troppo
mini per poter competere) e le medie stanno qualificando la propria presenza
internazionale, dove l’italian style si afferma come sofisticata frontiera
del Made in Italy, dove il sistema finanziario ha vissuto una profonda ristrutturazione
e anche il tanto bistrattato mondo bancario, pur tra grandi e note fatiche,
esce rafforzato da una rinnovata competizione interna (vedi a proposito
l’articolo in questo stesso numero di Alessandro Carpinella). Il Rapporto
censis tiene a sottolineare come questa estraneità alla politica
si riscontri non solo nei comportamenti degli operatori economici ma anche
all’interno dei meccanismi sociali e privati dei cittadini: «Stare
nelle cose con continuità, pazienza, emozioni reali sono scelte che
rinascono dal fondo più intimo della società italiana e che
non hanno bisogno di progettualità politica, perché avvengono
senza passare per quei processi di precomprensione e di precodificazione
della realtà che sono indispensabili per fare lavoro politico e progettuale.
Nella complessità italiana le cose avvengono, e di solito avvengono
prima che le si capisca e le si codifichi ex-ante».
Insomma il declino è la fotografia di un paese che potremmo a breve
gettarci alle spalle, e la politica che nei prossimi anni vorrà interpretare
questa nuova rinascita deve essere in grado di parlare un linguaggio di
competenza ma anche di ottimismo, perché puntare tutto sulla letteratura
del declino per scaricarla addosso ai governanti dell’ultima tornata
è francamente un esercizio di strumentalizzazione smaccato che sottintende
una sfiducia di fondo sulle possibilità di continuare a rilanciare
il paese. Anche perché, su questo terreno, nessuno dei due raggruppamenti
può ritenere di avere le carte in regola, visto che nell’ultimo
decennio entrambi hanno diviso la guida del governo senza riuscire a incidere
svolte decisive. Se il centrodestra sconta l’inevitabile combinato
di delusioni per le riforme non attuate e di risentimenti per quelle invece
avviate (una delle contraddizioni di chi resta in mezzo al guado), il centrosinistra
non convince appieno né gli osservatori imparziali (il giudizio negativo
dell’Economist sull’Italia è motivato anche dalla sfiducia
che la sinistra possa realizzare le riforme necessarie) né gli elettori
che nei sondaggi d’opinione non assegnano un vantaggio tale da far
considerare chiusa la partita. Se ne sono accorti i Ds che negli ultimi
tempi hanno rimodulato i toni della campagna elettorale, mettendo in ombra
i lamenti e le enfatizzazioni sul “disastro italiano” e puntando
sull’idea che un governo diverso sarebbe in grado di stimolare le
potenzialità del paese: lo slogan di Fassino è “coesione
e competizione”.
Ora tocca al centrodestra impostare la propria campagna elettorale. Sempre
spulciando le osservazioni contenute nell’ultimo Rapporto censis,
c’è un elemento che spicca tra gli altri e che riguarda i sentimenti
prevalenti nella società: gli italiani reagiscono al declino con
«una collettiva propensione a reinstaurare le tracce su cui si era
mosso lo sviluppo italiano dal 1950 in poi». Che tradotto in comportamenti
generali, significa soprattutto scegliere di stare dentro le cose, di privilegiare
la continuità evolvendosi all’interno del tessuto quotidiano,
di recuperare l’affettività: nei termini sociologici del censis
«di dar cioè tonalità emozionale ai vari comportamenti,
individuali e collettivi che siano». Passione. Partecipazione. Condivisione
dei problemi. Questo esprime oggi la società italiana: una ripulsa
verso i grandi progetti di palingenesi che negli anni Novanta sono stati
la cifra di ogni programma politico e che hanno irrorato le diverse compagnie
dei nuovisti che si sono succedute sull’uno e sull’altro versante
dello schieramento politico, una stanchezza verso i personalismi e gli antagonismi
esasperati della politica e la ricerca pragmatica e quotidiana di percorsi
più misurati, meno roboanti e più operosi. La grande novità
del Rapporto è quella di individuare in questa scelta non un ripiego
nostalgico verso il passato, una rinuncia a crescere e a confrontarsi con
le sfide globali, ma il sentiero individuale e collettivo deciso da una
società per sbloccare l’impasse, il declino, lo stallo della
politica. La copertina di Ideazione di tre numeri fa, quella dedicata ad
Alcide De Gasperi, aveva a suo modo inquadrato questi sentimenti: non era
un’indicazione politica (un impossibile ritorno al centrismo post-bellico)
né un tentativo di appropriazione indebita (lo statista trentino
appartiene tutto alla tradizione della Democrazia cristiana che è
cosa ben diversa dall’attuale coalizione della Casa delle Libertà)
ma era più semplicemente l’appello – innanzitutto ai
politici del centrodestra – di ritrovare la dimensione del sentimento,
della partecipazione, del coinvolgimento delle opinioni pubbliche nella
loro azione politica. Era, insomma, l’indicazione di uno stile di
governo della cosa pubblica.
Segnali come un ritrovato spirito di radicamento nel territorio, di ritorno
alla dimensione comunitaria, di spostamento verso il locale – tutti
presenti nell’analisi censis – non sono indici di ripiegamento
e ridimensionamento ma di ricerca di coesione e compattamento. Verrebbe
da sostenere che la società esprima nel suo complesso valori moderati
che una classe dirigente conservatrice e cattolico-liberale dovrebbe essere
in grado di intercettare meglio degli avversari. Ma così ancora non
è. Qualcosa si è mosso sul fronte di un rinnovato dialogo
con la Chiesa, alla ricerca di valori comuni di buon senso che rappresentano
il patrimonio di questo paese e il tessuto migliore della sua organizzazione
sociale. Per il resto, c’è molto da fare. Si sono perse le
guide di Regioni e Comuni, lasciando alla sinistra il compito di rappresentare
il terminale politico più vicino ai cittadini. Ma ci si illude se
si pensa di vincere con una campagna elettorale modellandola su quelle degli
anni passati, con un leader solo al comando, parole d’ordine secche
come slogan e cifre, dati, numeri a ridisegnare un sogno pragmatico che
non scalda più i cuori. Una politica fredda non è politica:
oggi non si chiede ai governanti solo di raggiungere degli obiettivi ma
come quegli obiettivi si vogliono raggiungere. Bisogna dare risposte efficaci
all’esigenza di partecipazione, coinvolgendo l’elettore nelle
scelte che il governo ha compiuto e nelle difficoltà che ha trovato:
non negandole ma spiegandole e dimostrando che impegno c’è
stato e che si ha chiara la strada da seguire. C’è ancora tempo
per cambiare la musica. Poco, ma c’è.
[13 settembre 2006]
Pierluigi Mennitti,
direttore di Ideazione
(c)
Ideazione.com (2006)
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