Nicola Matteucci (scuola di Felice
Battaglia a Bologna) fu sempre vicino a Torino. Forse perché si interessava
di giansenismo e l’intellettualità torinese fu sempre (ed è) giansenista.
Giansenisti nel Settecento erano i Radicati, famiglia della moglie di Sergio
Cotta (medaglia d’argento della Resistenza). A Cotta Matteucci era legato da
profonda amicizia e dai comuni studi crociani della prima giovinezza. Poi
Cotta passò dallo studio della società alla “ontologia”, mentre Matteucci
rimase filosofo della politica.
Per molti, dopo l’ultima guerra, le origini crociane furono un avvio al comunismo. Per Cotta furono l’opposto e per Matteucci (caso abbastanza raro) furono un incentivo a non semplificare e a non confondere. Io divenni anticrociano prima ancora di iscrivermi all’università, dopo aver letto due libri di Croce. Un amico di famiglia, avvocato, me li regalò quando seppe che mi interessavo di filosofia e che perciò volevo iscrivermi alla facoltà di legge (come Croce). Ne fu entusiasta. La filosofia è interessante, disse, ma i professori sono “così cretini” (parole sue). Se non che, quando ebbi letto Croce decisi di iscrivermi a filosofia. Matteucci fece l’una e l’altra cosa, in ordine inverso al mio, prima si laureò in giurisprudenza, poi in filosofia. Io mi iscrissi dopo a giurisprudenza, ma non terminai (come Croce!). L’analogia finisce qui, ma la mia vicinanza spirituale a Matteucci comincia appena, perché si manifesterà progressivamente.
Matteucci veniva spesso a Torino; poi
andai io a Bologna, perché era la città di Battaglia, presidente della
Società filosofica (a un certo punto, dopo il congresso di Venezia, divenne
presidente di tutte le società di filosofia del mondo). Fui nella bellissima
casa di Matteucci ai margini di Bologna, fui in trattative con il Mulino per
pubblicarvi La speranza nella rivoluzione, ma il Mulino stesso mi consigliò
nel mio interesse di preferire Rizzoli (era in buona fede ma, forse, in
torto). Dove però conobbi meglio Matteucci fu a un concorso di filosofia
morale. Era divenuto titolare di quella disciplina, perché la scuola di
Bologna collegava strettamente alla filosofia morale la filosofia del
diritto (o “del dritto” come era solito dire Battaglia). Ci trovammo
immediatamente d’accordo nei criteri di giudizio: meritocratici e liberali,
in un’epoca in cui per alcuni i liberali erano “fascisti” e Manlio Brosio
(il più illustre figliol prodigo di quel partito) vedendomi nella sede di
via Frattina, mi domandò: «Lei qui? Non ha paura di compromettersi?».
Un particolare che mi accomuna a Matteucci lo appresi solo pochissimi anni fa da un articolo di Giovanni Russo sul Corriere della Sera: entrambi perdemmo padre e madre ad opera dei comunisti in tempo di guerra. Sembrava che i due articoli dovessero essere l’inizio di una serie sull’argomento (se ne interessava anche lo storico Piero Melograni) e suggerii a mia volta un terzo nome, ma dubitativamente, perché non sono cose su cui gli interessati si soffermino volentieri.
Accademicamente ero considerato un
“cattolico” e Matteucci un “laico”. E nell’università di allora cattolici e
laici erano guelfi e ghibellini, anche se qualche guelfo bianco poteva
essere giudicato, come Dante da Foscolo, un “ghibellin fuggiasco”. In
filosofia questa divisione poteva sembrare comprensibile, ma che in medicina
fosse diverso tra laici e cattolici il modo di curare le appendiciti
colpisce. Eppure era così. Solo i grandi si collocavano sopra le parti, e
grandi accademicamente erano, sia Battaglia, sia il mio maestro Augusto
Guzzo. Augusto Guzzo mise in cattedra più cattolici che laici, ma fu maestro
in particolare di un “laico non laicista” come Francesco Barone, maestro a
sua volta di Marcello Pera. Battaglia mise in cattedra molti più laici che
cattolici, ma, si deve riconoscere, di “alta statura morale e
intellettuale”.
In quel concorso Matteucci portava un candidato che avevo conosciuto e apprezzato a Trieste, Stelio Zeppi, in origine un calogeriano doc. Calogero fu a capo di uno dei primi partiti antifascisti, il partito d’Azione e, salito al soglio Giovanni XXIII, divenne filosofo del dialogo per eccellenza: al punto che, quando ne fu presidente, impose il tema del dialogo al congresso della Società filosofica. Noi dovremmo ricordare questa gloria nazionale, oggi che il dialogo è divenuto uno slogan universale, come ricordiamo Meucci, inventore del telefono prima di Bell. Accadeva però che alcuni, constatato che al nome del partito non corrispondevano i fatti, cambiassero casacca. Alcuni diventarono comunisti, altri liberali. Pareyson, ad esempio, da azionista divenne cattolico di destra. Un caso singolare, poi, lo voglio ricordare, perché non è abbastanza noto. Un calogeriano doc era anche Giorgio Radetti, laicista e di sinistra (non comunista). Dopo aver vinto il concorso ed essersi sposato per la seconda volta divenne professore a Roma, e una volta mi invitò a casa sua per il giorno dell’Epifania. Però mise le mani avanti: «Non ti scandalizzi se trovi qualcuno molto di destra?» Risposi: «Per nulla». E chi trovai in casa dell’ex calogeriano? Un ex capo dei servizi segreti, che era stato coinvolto nell’affare Segni-Tambroni.
Stelio Zeppi non si avvicinò mai al
Msi, ma da calogeriano divenne un autentico liberale. I suoi studi di
filosofia antica meritavano la stima di Matteucci e mia: così votammo
insieme. Voglio ricordare anche che due volte avvenne la stessa cosa con
Geymonat che, del resto, concluse la sua opera di scrittore (dopo essersi
sposato anche lui per la seconda volta) con un libro su La libertà, che con
Uberto Scarpelli presentai al Casinò di Sanremo. L’evoluzione di Geymonat è
singolare e merita di essere ricordata da chi, come me, ne ha la memoria
storica, perché i fatti conosciuti non rivelano sempre ciò che c’è sotto. Al
confino a Castellamonte (dove si era ritirato Martinetti) prima del 25
luglio, Geymonat rimase sempre fedele a un sinistrismo puro. L’adesione al
comunismo gli fu resa possibile dalla dialettica che nell’urss dava una
funzione indipendente alla scienza come antitesi (Accademia delle Scienze)
contro la tesi (potere politico) in attesa della sintesi del Partito
comunista. Ciò permetteva a Geymonat una totale libertà di giudizio in
materia di scienza, anche nei concorsi universitari, dove due volte votammo
insieme in favore di un candidato di destra e cattolico, ma preparatissimo
in matematica e fisica (Evandro Agazzi). Quando la scuola di Galvano della
Volpe relegò la dialettica in soffitta come un’anticaglia, Geymonat rimase
spiazzato e concepì verso quell’ala scissionista un odio incondizionato. A
quella scuola apparteneva Lucio Colletti, che i lettori ricorderanno come
collaboratore di Ideazione. Ci trovammo insieme a giudicarlo in concorso.
Geymonat, che era in maggioranza, se solo avesse trovato un candidato
alternativo avrebbe fatto cadere Colletti; ma non lo trovò. Tuttavia aderì a
una formula proposta da me, grazie a cui Colletti uscì ultimo con tre voti
su cinque. Poi, come tutti sanno, divenne un anticomunista viscerale.
Matteucci non ebbe mai problemi del genere. La sua formazione crociana lo rese aperto, la scuola bolognese lo rese attento alla precisione scientifica; sicché collaborare con persone di idee diverse gli era connaturale.
Essere liberali significa collaborare
senza dover per questo avere le stesse idee. Così Matteucci collaborò
intensamente con Norberto Bobbio, anche se in questi giorni leggo qualche
frase sua molto aspra contro il concetto bobbiesco di democrazia. In forma
più modesta collaborai con Bobbio anch’io e in casa sua venni in contatto
con Vito Laterza. Bobbio stesso collaborò con me quando organizzai a Venezia
un convegno trilingue su Pubblico e privato (1978) in cui quasi tutti erano
antistatalisti, ma Bobbio fece notare che sono appunto i privati quelli che
approfittano dello strapotere statale. (Cosa che, dopo Pareto, è nota ad
ogni liberale).
Non è luogo qui per ripetere ciò che ho detto altrove sullo spirito liberale di Bobbio nonostante che da lui mi divida il concetto del diritto: leibniziano e giusnaturalistico il mio, crociano e giuspositivistico il suo. Ma non posso non ricordare la collaborazione di Matteucci con Bobbio, in particolare a un dizionario di scienze sociali, benché in politica divergessero profondamente. Il convegno di Venezia mi dà poi occasione per ricordare, di Matteucci, l’aristocratica raffinatezza. Quando seppe che lo avevo organizzato all’Europa (era dicembre, fuori stagione), mi rimproverò, per non averlo fatto al Gritti, molto più signorile. Io avevo le mie buone ragioni di comodità, di rapporti con la Compagnia grandi alberghi e con la stessa famiglia Cini. Ma quanto a nobiltà non c’è dubbio che Matteucci avesse ragione.
Vittorio Mathieu, accademico dei Lincei,
presidente del comitato scientifico della Fondazione Ideazione.
(c)
Ideazione.com (2006)
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