Il nuovo scenario politico
di Domenico Mennitti
Ideazione di novembre-dicembre 2005
Se i più accreditati sondaggisti italiani non hanno perduto –
tutti insieme e contemporaneamente – la capacità di interpretare
gli umori dei cittadini, le conclusioni che si debbono trarre alla chiusura
di due mesi di aspra battaglia politica sono di sostanziale tenuta degli
orientamenti elettorali. Questo dato indica che il recupero dei consensi
perduti è molto faticoso e che l’acquisizione di nuovi lo è
altrettanto. Occorre peraltro sottolineare che non sono trascorsi sessanta
giorni qualsiasi, caratterizzati da iniziative vischiose che hanno lanciato
deboli segnali di cambiamento politico: abbiamo attraversato due mesi di
azioni forti che hanno prodotto effetti dirompenti su vari e significativi
fronti.
È cambiato il sistema elettorale, considerato elemento scatenante
del terremoto che sconvolse il quadro politico nella primavera del 1994
ed è stato stabilito il ritorno al passato, riproponendo il vecchio
proporzionale, caratterizzandolo però con il riconoscimento ai partiti
di una dignità che sembrava perduta e che nessuno sa come e quando
l’abbiano riconquistata. Tuttavia gli uomini e le donne (queste ultime
quante le nomenclature decideranno senza più il vincolo delle quote)
che andranno ad occupare gli scanni di Montecitorio e Palazzo Madama non
li sceglierà il corpo elettorale, al quale è demandato il
compito di indicare la lista preferita; la scelta, se il Senato completerà
positivamente l’iter parlamentare in corso, è affidata ai partiti
che, male combinati come sono, si riappropriano del potere di vita o di
morte dei singoli dirigenti.
E la tanto evocata società civile? Certo, non ha dato grande prova
di capacità e sarebbe una ipocrisia rimpiangerla. Però corriamo
il rischio che proprio quella parte che si è inserita e si è
mostrata inadeguata sia candidata con buone prospettive a perpetuare la
presenza nelle istituzioni, grazie al principio che “chi è
dentro è dentro e non si sbatte fuori”. Vige l’immortalità
(politica, s’intende) per Prodi e Berlusconi. Estenderla senza ragione
a troppi potrebbe risultare insopportabile. Soprattutto perché si
favorisce la costituzione di una casta chiusa e l’accesso ai nuovi
viene di fatto sbarrato.
Queste riflessioni, rapide e confuse, servono ad attestare che chi scrive
non è un maggioritario pentito. Questa rivista nacque dodici anni
fa sulla spinta del “nuovo modo di eleggere la rappresentanza”
e, pur non facendo di un sistema elettorale una scelta da condividere per
sempre, conferma l’opinione che la crisi delle istituzioni non sia
dipesa da come abbiamo votato, ma da come è stato gestito il successo,
dalle riforme mancate, dai ritardi nei processi di evoluzione dei partiti,
da tutto quanto insomma nelle sedi politiche ed istituzionali ha continuato
a funzionare come prima, ignorando che, per produrre effetti positivi, è
indispensabile che il sistema costituzionale sia appunto un sistema, operi
nel quadro della sintonia fra tutte le regole del gioco democratico.
Quanto all’offensiva lanciata dal centrodestra occorre registrare
che è stata massiccia e ben calibrata ed ha ribadito con forza la
leadership nel Polo di Berlusconi. Il premier ha agito con determinazione
sul piano interno e su quello esterno, puntando a ristabilire il suo primato
ed a fronteggiare l’offensiva dell’Unione. Bisogna riconoscere
che ha fatto giustizia anche di un’altra leggenda italica secondo
la quale le riforme si decidono con il consenso di tutti, cioè di
maggioranza ed opposizione insieme. Se questa remora fosse stata rimossa
per tempo, oggi il governo potrebbe presentare una più vasta lista
di riforme varate. Berlusconi quindi ha sbaragliato il campo, liberandosi
dell’avversario interno individuato in Follini. L’emergente
dell’estate è precipitato nel triste epilogo autunnale. Con
la sua disfatta si è chiusa la fase della contestazione al premier.
Non c’è più bisogno di primarie e, anche se ogni leader
guiderà la propria lista, il capo riconosciuto della coalizione è
lui, Silvio Berlusconi. Casini promette che non farà sconti, ma la
dichiarazione è patetica: gli sconti – tutti lo sanno –
li ha fatti Berlusconi a lui quando utilizzava le televisioni Mediaset per
gli spot elettorali.
Questo della propaganda in vista delle elezioni è un altro fronte
che il capo del governo ha aperto con determinazione. Berlusconi ha sempre
creduto molto agli effetti che produce una adeguata presenza in televisione.
Quando decise di affrontare direttamente la lotta politica seguì
con meticolosa cura il rito televisivo: assunse subito l’atteggiamento
del vincitore, sistemandosi in poltrona, dietro una scrivania che ricordava
quella del capo dello Stato. Ora è il presidente del Consiglio, va
in tv interpretando il ruolo alto che svolge, però vuole rafforzare
la comunicazione e far saltare la par condicio: chiede più spot,
punta ad entrare nelle famiglie con la creatività e la fantasia che
gli sono proprie, non attraverso la polemica velenosa degli avversari. Che
però non disdegna, anzi si getta a capofitto nella zuffa, assumendo
a tema primario dei suoi ragionamenti la rivendicazione all’Italia
della libertà d’informazione, che l’opposizione contesta
senza farsi scrupolo d’esportare sin nelle istituzioni europee questa
bugia che il nostro premier sente come una infamia.
Berlusconi sa che questi sono tempi nei quali vince chi riesce meglio a
mobilitare i propri sostenitori e non è affatto vero che la vita
nel Palazzo abbia ridotto la sensibilità delle sue antenne. Sa che
la sintonia con gli elettori è giù di tono e pensa di recuperare
il rapporto alzando il livello della polemica. Fa molto conto sull’antipatia
dei denigratori, che non hanno fatto tesoro delle esperienze passate e sono
lì che fremono per venire alla ribalta. Travaglio, Guzzanti, Santoro
e compagnia al seguito sono gli alleati sui quali fa maggiore affidamento.
Non è per caso che la replica a Celentano sia giunta forte dopo qualche
giorno: è intervenuto quando la prima ondata polemica era esaurita
e dopo essersi reso conto che il ritorno di Santoro, simbolo della protervia
di sinistra, aveva determinato una larga reazione spontanea.
Di eguale intensità è stato il terremoto che Berlusconi ha
provocato nell’Unione, dove tutto era stato predisposto modellandolo
sulla vecchia legge elettorale. Questa legge, come abbiamo già rilevato,
non ci esalta, però è impossibile non cogliere la fragilità
dello schieramento di sinistra, che è rimasto spiazzato dall’iniziativa
avversaria ed è piombato di nuovo in un mare di tensioni e di contestazioni.
Le certezze di qualche mese fa sono andate in frantumi e l’ostruzionismo
messo in atto in Parlamento non ha prodotto alcun risultato: non di merito,
perché il testo finale della legge ha accolto solo le modifiche suggerite
dal Quirinale, e neppure di opinione, perché non è montata
l’onda dell’indignazione che i partiti del centrosinistra pensavano
di sollevare. Non è montata neppure contro la legge finanziaria,
che resta un provvedimento da tempo di guerra e tuttavia ha sommato una
serie di giudizi positivi. Comunque non quelli che la sinistra aveva catastroficamente
previsto.
Altri e gravi problemi sono sul tavolo del dibattito interno all’Unione.
La necessità di scegliere un partito o, almeno, una lista ha messo
Prodi in ambascia e, qualunque sarà la scelta finale, è come
se gli avessero strappato di dosso la veste che l’accorta regia diessina
gli aveva cucito in occasione delle primarie. Da leader indiscusso sopra
le parti, è stato costretto a riprendere posto fra gli altri, un
po’ più avanti ma non quanto serve per imporre una linea politica
definita. Leader sì, come ha stabilito l’alto numero dei suffragi,
ma primus inter pares, in mezzo a tanti che si sentono uguali e rivendicano
la stessa dignità nella redazione del programma, tuttora una grande
scommessa, considerate le divergenze che permangono, alcune inconciliabili
soprattutto in politica estera.
È fin troppo facile prevedere che una intesa sarà comunque
raggiunta per la campagna elettorale, per quanto la richiesta perentoria
di Bertinotti («stando ai risultati delle primarie, ritengo di dover
incidere sul programma almeno per un quarto») avrà già
procurato qualche brivido a Prodi ed ai partiti di centro. Però,
quando incombono le elezioni, prevale la tendenza a prendere voti, che poi
confligge con la capacità di governo. È una esperienza già
vissuta dalla coalizione di centrosinistra e che incombe come un incubo
sul futuro dell’Unione. La prospettiva di accordi parlamentari alternativi
che non abbiano più il significato del tradimento assume una dimensione
angosciante.
In due mesi uno scenario che sembrava immobile e scontato si è velocemente
mosso aprendo nuovi orizzonti. Ce ne sono altri cinque da affrontare. Saranno
sufficienti a ribaltare previsioni che sembravano definitive?
Domenico Mennitti,
presidente della Fondazione Ideazione e sindaco di Brindisi.
(c)
Ideazione.com (2006)
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