La politica italiana, superata la stagione dei congressi, punta diritto
alle scadenze elettorali. La prima, ormai prossima, definirà il segno
prevalente dei governi regionali, ma da tutti è considerata un passaggio
decisivo per l’appuntamento del 2006, quando la grande sfida deciderà
il destino del paese. Per partiti e classi dirigenti sarà una lunga
corsa senza soste ed anche i temi che animeranno il confronto elettorale
sono tutti orientati verso l’obiettivo finale; resteranno perciò
in ombra le valutazioni sull’efficienza dei governi regionali, che
pure svolgono una funzione primaria nella gestione dell’amministrazione
pubblica. Ma le consultazioni, ormai stabilmente scadenzate lungo un triennio,
comportano inevitabilmente l’evidenza maggiore dell’ultimo risultato,
perché in effetti è la qualifica politica del governo nazionale
che indica lo stato di salute dei partiti e delle coalizioni, oltre che
gli orientamenti degli elettori.
I dibattiti dei congressi celebrati nei mesi scorsi hanno risentito della
circostanza e, infatti, la dialettica si è sviluppata nella prospettiva
delle consultazioni nazionali. «L’Italia è grande –
ha sostenuto Fassino chiudendo i lavori al Palacongressi – ma chi
guida il governo è piccolo». E poi ha aggiunto che con Prodi
il suo partito «restituirà all’Italia dignità,
forza e futuro». Fra le molte ragioni di polemica, una in particolare
sembra ricorrente ed anche efficace, perché insinua nel cittadino
la preoccupazione del futuro, mette in discussione il benessere delle nuove
generazioni, rende inquieta la prospettiva della tranquillità sociale,
turba insomma quella fondamentale aspirazione dell’uomo che è
la vita serena. È la teoria del “declino”, secondo la
quale l’Italia non è più alle prese con le ordinarie
difficoltà congiunturali con cui ciclicamente debbono fare i conti
tutti i paesi industrializzati, ma è vittima di una crisi strutturale
ormai inarrestabile, che ci rende fanale di coda dell’Occidente, marginali
se non addirittura estranei ai processi di evoluzione dell’economia
mondiale.
Nessuno osa contestare la gravità della fase economica che il nostro
paese sta attraversando né il fatto che la condizione di precarietà,
pur inquadrandosi nella generale crisi che sta coinvolgendo soprattutto
le politiche industriali dell’Occidente, abbia cause endogene rilevanti.
La domanda è se sia utile ridurre un fenomeno tanto complesso ad
uno slogan elettorale, per cui Berlusconi è l’affossatore –
appunto il premier “piccolo” evocato da Fassino – e Prodi,
invece, può annunziarsi come il salvatore. Le cose non si pongono
in questo modo e meritano una riflessione articolata, meno incline ad esemplificazioni
di ordine propagandistico.
Innanzitutto il termine “declino” è stato mutuato da
una letteratura diffusa in tutti i paesi dell’Occidente: in Francia,
in Germania ed anche negli Stati Uniti. Esso indica le difficoltà
divenute insuperabili per molti paesi occidentali a causa della irruzione
sul mercato produttivo, con notevole anticipo sui tempi previsti, dei paesi
di nuova industrializzazione. Questi hanno posto in essere una concorrenza
che è difficile, per certi aspetti impossibile, fronteggiare per
una serie di ragioni: prima di tutto il costo del lavoro, ma anche la vigenza
di regole semplici e talvolta indulgenti in materia ambientale e di tempi
rapidi per ottenere le autorizzazioni, mentre il gap tecnologico contrae
i tempi di recupero grazie alla velocità dell’informazione
telematica. In questo quadro gli elementi che determinano le scelte delle
imprese si sono profondamente modificati ed hanno assunto un ruolo rilevante
le potenzialità dei territori sui quali edificare gli impianti. La
prima conseguenza è stata la delocalizzazione, cioè la tendenza
delle imprese a localizzare gli impianti dove le politiche sono orientate
ad assicurare costi bassi dalla costruzione delle fabbriche alla produzione
dei beni. Con la delocalizzazione si stanno misurando tutti i paesi di consolidata
industrializzazione, ma i problemi si pongono in termini di maggiore gravità
in Italia dove il sistema ha subito negli ultimi venti anni cambiamenti
essenziali.
Uno di questi riguarda la struttura dell’industria italiana: tramontata
l’era del sistema delle partecipazioni statali, cioè dell’intervento
pubblico nell’economia, è finita anche l’epoca dei grandi
gruppi. è vecchia la polemica sull’anomalia del capitalismo
italiano, considerato sostanzialmente privo di capitali propri. Bloccato
per quasi quarant’anni, nel senso che non ha prodotto nuove aziende
e neppure nuovi protagonisti, il capitalismo è giunto al passaggio
tra prima e seconda repubblica molto debole, proprio mentre da ogni parte
s’invocava l’accelerazione dei processi di privatizzazione.
Per giunta quando al suo interno si apriva la fase del cambio di generazione
che sta comportando ancora un avvicendamento manageriale. Il risultato è
che, a parte la Fiat che però sta vivendo un passaggio particolarmente
delicato, in Italia non ci sono più grandi imprese e perciò
bisogna rendersi conto che il futuro industriale ed economico si gioca su
un pugno di medie aziende ben fatte e ben piazzate sui mercati, italiani
ed internazionali.
Emerge con forza, peraltro, un condizionamento di fondo che spesso abbiamo
superato ignorandolo con disinvoltura: siamo creativi trasformatori di materie
prime che non abbiamo e da noi l’energia costa più che altrove.
È obiettivamente difficile essere competitivi sui mercati internazionali
partendo da tali posizioni di svantaggio. Ora non è ragionevole attribuire
questo complesso di situazioni negative a Berlusconi ed al suo governo,
anche se spetta a lui ed alla sua coalizione, soprattutto nel momento in
cui si ricandidano alla guida del paese, predisporre un progetto capace
di fermare la tendenza negativa e di imprimere una svolta. Questo è
un compito che chiama in causa la politica, cui spetta creare le condizioni
perché l’economia possa liberamente ma proficuamente svolgersi.
Giuseppe De Rita sostiene da qualche tempo che in importanti aree dell’Italia
è venuto meno lo stimolo ad intraprendere, è caduta la tensione
per lo sviluppo e ci sia invece propensione ad impegnarsi su piani che,
avendo a riferimento la qualità della vita, rivolgono attenzioni
e risorse al sofisticato mondo dei servizi. Il presidente del Censis traduce
queste osservazioni nell’efficace formula “il successo è
già successo”, che non è una dichiarazione di resa e
neppure di estraneità rispetto alla competizione aperta nei settori
primari dell’economia. De Rita contesta che questa sia un’Italia
minore rispetto a quella degli anni scorsi, afferma che è diversa
ma non necessariamente peggiore di quella che abbiamo conosciuto. Insomma,
ci può essere una Italia priva di grande industria senza che ciò
autorizzi ad ipotizzare un declino inarrestabile. «Se il sistema ha
tenuto, nonostante sette anni di crisi – ha concluso in una intervista
pubblicata nell’inserto Affari & Finanza di Repubblica il 22 marzo
dell’anno scorso – questo vuol dire che da qualche parte c’è
vita, da qualche parte sta maturando qualcosa di positivo, di nuovo».
A noi questa sembra una chiave di lettura corretta, peraltro in linea con
quanto comporterà il nuovo assetto territoriale dell’Unione
Europea. Lo sviluppo del Sud dell’Unione ha una direttrice ben tracciata
lungo la quale muovere ed è quella dei traffici, degli scambi commerciali,
ma pure culturali, di trasmissione di conoscenze e di esperienze. Il recupero
del Mediterraneo come mezzo di comunicazione può far diventare concrete
ipotesi di sviluppo sinora vagheggiate come suggestioni letterarie: c’è
un fiume d’oro che attraversa il mare se questo diventa davvero “aperto”
ed è destinato a fecondare le sponde che bagna, ad aprire all’Europa
– quattrocento milioni di persone con redditi mediamente alti –
prospettive per sostenere la propria crescita, svincolandola dalla dipendenza
americana.
La partita si gioca sulla innovazione, sulla modernizzazione, sulla chiarezza
degli obiettivi. Non serve nascondere la verità, manipolare i numeri,
negare l’evidenza; è utile che i cittadini sappiano, condividano
le sfide, partecipino ai sacrifici ed alle speranze. L’Italia deve
investire su infrastrutture e conoscenza, i due pilastri dello sviluppo
moderno, indispensabili per tenere il passo delle trasformazioni in rapida
evoluzione. Nel mondo stanno cambiando gli equilibri della politica, dell’economia,
anche degli assetti fisici della terra. Di fronte a fenomeni di tale portata
si può assumere l’atteggiamento passivo e perdente dell’ineluttabile
declino o quello attivo e coraggioso della comprensione degli eventi per
governarli. Le consultazioni elettorali ordinariamente sono appuntamenti
con le schede, i simboli, i candidati; qualche volta con la storia. Perciò
è sempre bene recarsi alle urne, perché quasi mai si sa in
anticipo con chi o con che cosa ci si può incontrare.
Domenico Mennitti,
presidente della Fondazione Ideazione e sindaco di Brindisi.
(c)
Ideazione.com (2006)
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