Un progetto per sconfiggere il declino
di Domenico Mennitti
Ideazione di marzo-aprile 2005

La politica italiana, superata la stagione dei congressi, punta diritto alle scadenze elettorali. La prima, ormai prossima, definirà il segno prevalente dei governi regionali, ma da tutti è considerata un passaggio decisivo per l’appuntamento del 2006, quando la grande sfida deciderà il destino del paese. Per partiti e classi dirigenti sarà una lunga corsa senza soste ed anche i temi che animeranno il confronto elettorale sono tutti orientati verso l’obiettivo finale; resteranno perciò in ombra le valutazioni sull’efficienza dei governi regionali, che pure svolgono una funzione primaria nella gestione dell’amministrazione pubblica. Ma le consultazioni, ormai stabilmente scadenzate lungo un triennio, comportano inevitabilmente l’evidenza maggiore dell’ultimo risultato, perché in effetti è la qualifica politica del governo nazionale che indica lo stato di salute dei partiti e delle coalizioni, oltre che gli orientamenti degli elettori.
I dibattiti dei congressi celebrati nei mesi scorsi hanno risentito della circostanza e, infatti, la dialettica si è sviluppata nella prospettiva delle consultazioni nazionali. «L’Italia è grande – ha sostenuto Fassino chiudendo i lavori al Palacongressi – ma chi guida il governo è piccolo». E poi ha aggiunto che con Prodi il suo partito «restituirà all’Italia dignità, forza e futuro». Fra le molte ragioni di polemica, una in particolare sembra ricorrente ed anche efficace, perché insinua nel cittadino la preoccupazione del futuro, mette in discussione il benessere delle nuove generazioni, rende inquieta la prospettiva della tranquillità sociale, turba insomma quella fondamentale aspirazione dell’uomo che è la vita serena. È la teoria del “declino”, secondo la quale l’Italia non è più alle prese con le ordinarie difficoltà congiunturali con cui ciclicamente debbono fare i conti tutti i paesi industrializzati, ma è vittima di una crisi strutturale ormai inarrestabile, che ci rende fanale di coda dell’Occidente, marginali se non addirittura estranei ai processi di evoluzione dell’economia mondiale.
Nessuno osa contestare la gravità della fase economica che il nostro paese sta attraversando né il fatto che la condizione di precarietà, pur inquadrandosi nella generale crisi che sta coinvolgendo soprattutto le politiche industriali dell’Occidente, abbia cause endogene rilevanti. La domanda è se sia utile ridurre un fenomeno tanto complesso ad uno slogan elettorale, per cui Berlusconi è l’affossatore – appunto il premier “piccolo” evocato da Fassino – e Prodi, invece, può annunziarsi come il salvatore. Le cose non si pongono in questo modo e meritano una riflessione articolata, meno incline ad esemplificazioni di ordine propagandistico.
Innanzitutto il termine “declino” è stato mutuato da una letteratura diffusa in tutti i paesi dell’Occidente: in Francia, in Germania ed anche negli Stati Uniti. Esso indica le difficoltà divenute insuperabili per molti paesi occidentali a causa della irruzione sul mercato produttivo, con notevole anticipo sui tempi previsti, dei paesi di nuova industrializzazione. Questi hanno posto in essere una concorrenza che è difficile, per certi aspetti impossibile, fronteggiare per una serie di ragioni: prima di tutto il costo del lavoro, ma anche la vigenza di regole semplici e talvolta indulgenti in materia ambientale e di tempi rapidi per ottenere le autorizzazioni, mentre il gap tecnologico contrae i tempi di recupero grazie alla velocità dell’informazione telematica. In questo quadro gli elementi che determinano le scelte delle imprese si sono profondamente modificati ed hanno assunto un ruolo rilevante le potenzialità dei territori sui quali edificare gli impianti. La prima conseguenza è stata la delocalizzazione, cioè la tendenza delle imprese a localizzare gli impianti dove le politiche sono orientate ad assicurare costi bassi dalla costruzione delle fabbriche alla produzione dei beni. Con la delocalizzazione si stanno misurando tutti i paesi di consolidata industrializzazione, ma i problemi si pongono in termini di maggiore gravità in Italia dove il sistema ha subito negli ultimi venti anni cambiamenti essenziali.
Uno di questi riguarda la struttura dell’industria italiana: tramontata l’era del sistema delle partecipazioni statali, cioè dell’intervento pubblico nell’economia, è finita anche l’epoca dei grandi gruppi. è vecchia la polemica sull’anomalia del capitalismo italiano, considerato sostanzialmente privo di capitali propri. Bloccato per quasi quarant’anni, nel senso che non ha prodotto nuove aziende e neppure nuovi protagonisti, il capitalismo è giunto al passaggio tra prima e seconda repubblica molto debole, proprio mentre da ogni parte s’invocava l’accelerazione dei processi di privatizzazione. Per giunta quando al suo interno si apriva la fase del cambio di generazione che sta comportando ancora un avvicendamento manageriale. Il risultato è che, a parte la Fiat che però sta vivendo un passaggio particolarmente delicato, in Italia non ci sono più grandi imprese e perciò bisogna rendersi conto che il futuro industriale ed economico si gioca su un pugno di medie aziende ben fatte e ben piazzate sui mercati, italiani ed internazionali.
Emerge con forza, peraltro, un condizionamento di fondo che spesso abbiamo superato ignorandolo con disinvoltura: siamo creativi trasformatori di materie prime che non abbiamo e da noi l’energia costa più che altrove. È obiettivamente difficile essere competitivi sui mercati internazionali partendo da tali posizioni di svantaggio. Ora non è ragionevole attribuire questo complesso di situazioni negative a Berlusconi ed al suo governo, anche se spetta a lui ed alla sua coalizione, soprattutto nel momento in cui si ricandidano alla guida del paese, predisporre un progetto capace di fermare la tendenza negativa e di imprimere una svolta. Questo è un compito che chiama in causa la politica, cui spetta creare le condizioni perché l’economia possa liberamente ma proficuamente svolgersi.
Giuseppe De Rita sostiene da qualche tempo che in importanti aree dell’Italia è venuto meno lo stimolo ad intraprendere, è caduta la tensione per lo sviluppo e ci sia invece propensione ad impegnarsi su piani che, avendo a riferimento la qualità della vita, rivolgono attenzioni e risorse al sofisticato mondo dei servizi. Il presidente del Censis traduce queste osservazioni nell’efficace formula “il successo è già successo”, che non è una dichiarazione di resa e neppure di estraneità rispetto alla competizione aperta nei settori primari dell’economia. De Rita contesta che questa sia un’Italia minore rispetto a quella degli anni scorsi, afferma che è diversa ma non necessariamente peggiore di quella che abbiamo conosciuto. Insomma, ci può essere una Italia priva di grande industria senza che ciò autorizzi ad ipotizzare un declino inarrestabile. «Se il sistema ha tenuto, nonostante sette anni di crisi – ha concluso in una intervista pubblicata nell’inserto Affari & Finanza di Repubblica il 22 marzo dell’anno scorso – questo vuol dire che da qualche parte c’è vita, da qualche parte sta maturando qualcosa di positivo, di nuovo». A noi questa sembra una chiave di lettura corretta, peraltro in linea con quanto comporterà il nuovo assetto territoriale dell’Unione Europea. Lo sviluppo del Sud dell’Unione ha una direttrice ben tracciata lungo la quale muovere ed è quella dei traffici, degli scambi commerciali, ma pure culturali, di trasmissione di conoscenze e di esperienze. Il recupero del Mediterraneo come mezzo di comunicazione può far diventare concrete ipotesi di sviluppo sinora vagheggiate come suggestioni letterarie: c’è un fiume d’oro che attraversa il mare se questo diventa davvero “aperto” ed è destinato a fecondare le sponde che bagna, ad aprire all’Europa – quattrocento milioni di persone con redditi mediamente alti – prospettive per sostenere la propria crescita, svincolandola dalla dipendenza americana.
La partita si gioca sulla innovazione, sulla modernizzazione, sulla chiarezza degli obiettivi. Non serve nascondere la verità, manipolare i numeri, negare l’evidenza; è utile che i cittadini sappiano, condividano le sfide, partecipino ai sacrifici ed alle speranze. L’Italia deve investire su infrastrutture e conoscenza, i due pilastri dello sviluppo moderno, indispensabili per tenere il passo delle trasformazioni in rapida evoluzione. Nel mondo stanno cambiando gli equilibri della politica, dell’economia, anche degli assetti fisici della terra. Di fronte a fenomeni di tale portata si può assumere l’atteggiamento passivo e perdente dell’ineluttabile declino o quello attivo e coraggioso della comprensione degli eventi per governarli. Le consultazioni elettorali ordinariamente sono appuntamenti con le schede, i simboli, i candidati; qualche volta con la storia. Perciò è sempre bene recarsi alle urne, perché quasi mai si sa in anticipo con chi o con che cosa ci si può incontrare.


Domenico Mennitti, presidente della Fondazione Ideazione e sindaco di Brindisi.

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