
Un continente alla prova della riunificazione
di Pierluigi Mennitti
“L’allargamento
significa l’unificazione dell’Europa. Sono convinto che sia la vera risposta
alla sfida del 1989, quando il comunismo è caduto e i paesi dell’Europa
centrale hanno ritrovato indipendenza e democrazia”. L’invito a inquadrare
sul piano storico e politico l’argomento che va sotto il burocratico termine
di “allargamento dell’Unione europea” viene da uno storico polacco,
Bronislaw Geremek, uno dei padri nobili della stagione di Solidarnosc. Un
intellettuale del Novecento che ha attraversato in prima persona le tragedie
e le speranze del “secolo del male”: dall’infanzia nel Ghetto di Varsavia
alla fuga dall’Olocausto, dall’adesione al comunismo alla rottura dopo la
Primavera di Praga, dalle barricate sui cantieri navali di Danzica alla
collaborazione politica con Lech Walesa. È stato lui, con un’approfondita
intervista concessa lo scorso agosto al quotidiano francese Le Figaro a
riportare la questione “allargamento” fuori dalla monotonia di parametri,
cifre, dossier e formulari e a ricondurla sui binari di un sano percorso
politico: “I nostri paesi hanno sofferto in maniera differente negli scorsi
decenni. Hanno lottato per la loro indipendenza puntando ogni speranza
sull’Europa. Ciò che noi apportiamo all’Unione europea è molto più che un
grande mercato, è un messaggio di speranza […] e una volontà politica di
essere in Europa e di costruire una comunità forte”. E conclude: “Con noi
l’Unione europea potrà più facilmente ritrovare quella energia creatrice che
l’animò alle origini”.
E’ una sorta di invito a riannodare le fila della storia, quello che propone
Geremek e con lui tutta una serie di intellettuali e politici che temono
l’aridità dei processi burocratici che governano l’Unione e individuano
nelle trappole delle eterne contrattazioni e dei singoli egoismi il pericolo
che tutto il processo messo in moto nel 1989 possa naufragare, magari per un
punto in più o in meno nella quota di sostentamento all’agricoltura di un
Paese membro. È un invito a tornare non solo all’energia creativa delle
origini del progetto europeo ma anche al più recente percorso politico di
Kohl e Mitterrand che, bilanciando esigenze di riunificazioni e
allargamenti, rese l’Europa protagonista dei cambiamenti epocali della fine
dello scorso secolo e mise in moto il processo che oggi ci ha dato una
moneta unica e domani ci consegnerà un continente unito, dall’Atlantico ai
Carpazi.
Dieci nuovi membri, due in attesa
L’allargamento dell’Unione Europea stenta ad essere considerato
dall’opinione pubblica comunitaria argomento centrale del proprio dibattito.
Alle prese con le conseguenze non tutte positive dell’introduzione
dell’euro, pochi si stanno confrontando con gli straordinari scenari che si
aprono col primo maggio, quando i dieci paesi che hanno superato l’esame di
ammissione divengono a tutti gli effetti membri dell’Unione Europea.
L’Unione europea passa da quindici a venticinque membri. Entrano a farne
parte Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia, Estonia, Lettonia,
Lituania, Slovenia, Malta e Cipro. In tutti questi Stati, i cittadini
parteciperanno il prossimo 12 e 13 giugno alle elezioni europee, inviando
per la prima volta nella loro storia deputati al Parlamento di Strasburgo.
Nei due palazzi (un esempio di spreco?) di Strasburgo e Bruxelles i lavori
di ampliamento edilizio per ospitare le truppe delle nuove delegazioni
(deputati, assistenti, traduttori, lobbisti) sono quasi completati. Agli
altri due paesi candidati ancora in ritardo nel processo di integrazione,
Romania e Bulgaria, sono stati concessi altri tre anni di tempo per
completare l’adesione: la data prevista è il 2007.
I nuovi equilibri geo-politici
Sul piano geo-politico, si concretizza quello spostamento ad Est del
baricentro continentale già iniziato con l’inglobamento – via Bonn – dei
cinque nuovi länder tedeschi che costituivano la vecchia Ddr. Con lo
slittamento delle frontiere orientali di circa 1.000 chilometri (contando
come punto estremo la nuova frontiera di Narva, tra Estonia e Russia)
perdono posizione centrale, dal punto di vista geografico, paesi come la
Francia, la Spagna, l’area Benelux, mentre l’Inghilterra (che pure appare
avviata a un’integrazione sempre più stretta con la Ue) si aggrappa ancora
alla sua funzione di cerniera con l’alleato americano. Scoprono un ruolo di
primo piano paesi come la Germania, l’Italia, l’Austria e le nazioni
scandinave che ritrovano d’un colpo gli Stati della sponda meridionale del
mar Baltico. Si ricompatta la vecchia Europa centrale, con Polonia,
Repubblica Ceca, Slovacchia e Ungheria che si scrollano di dosso il fardello
geo-politico dell’Est. E s’intravvede anche un embrione della vecchia
Mitteleuropa con la fusione di commerci, uomini, rotte e infrastrutture da
Trieste a Lubiana, da Budapest a Timisoara, a Vienna, Praga e Bratislava.
Anche per l’Italia si aprono prospettive nuove. Non ci sarà più un confine
Nord-orientale, grazie alla Slovenia. E con il futuro ingresso di Romania e
Bulgaria perfino la frontiera balcanica appare oggi meno incerta. Questo
primo allargamento non coinvolge in maniera piena i nostri interessi
nell’Europa Sud-orientale ma indica con chiarezza che la strada è segnata e
che dopo l’Europa centrale dovrà essere il turno di quella balcanica, della
Romania, della Bulgaria e perché no, anche della Croazia, con l’occhio
lungimirante alla Serbia, alla Bosnia e all’Albania (tutte nazioni già
interessate dal Patto di stabilità per l’Europa Sud-orientale promosso nel
1999 dall’Ue). Come si è visto per i primi dieci paesi dell’allargamento, il
vincolo esterno dell’Europa è un formidabile medicinale per mettere ordine
nelle finanze, nelle economie e nelle istituzioni degli Stati che intendono
aderire. E si può sostenere che senza questo vincolo, nei paesi di questo
primo allargamento, i tempi del passaggio dalle economie di piano a quelle
di mercato, dai regimi comunisti a quelli democratici, sarebbero stati molto
più lunghi.
I mille volti dell’Est
Ma cosa è diventata l’Europa centro-orientale tredici anni dopo il crollo
dei regimi comunisti? Quali trasformazioni ha vissuto, che grado di
omogeneità ha raggiunto con la metà d’Occidente? In sostanza, che tipo di
paesi si presentano all’appuntamento con l’Unione? Se già nell’era sovietica
quelli satelliti presentavano marcate differenze sotto un’apparente
uniformità, nel decennio successivo al crollo del sistema comunista si è
assistito all’emergere di ulteriori squilibri. Percorrendo oggi le strade
dell’altra Europa con il taccuino del cronista in mano si ha la conferma di
un enorme miglioramento. Cadono molti pregiudizi sull’Est che ancora
alimentano la disattenta stampa occidentale. Dalla Polonia all’Estonia,
dalla Repubblica Ceca all’Ungheria si viaggia attraverso un’Europa assai
simile a quella occidentale, che negli ultimi anni ha vissuto un vero boom
economico, con tutti i limiti, ma anche con tutte le potenzialità che le
fasi di crescita tumultuosa presentano.
La cosa che colpisce di più è il colore che ravviva le città e le genti che
vivono queste zone d’Europa. Il grigiore che scandiva il monotono tempo
dell’era comunista è svanito, cancellato dai restauri dei palazzi, dal
recupero delle piazze, dall’apertura dei negozi, dalla moda venuta
dall’Occidente. Una ventata d’allegria ha cambiato il volto dell’ex Europa
dell’Est, restituendo a queste genti l’orgoglio di un’appartenenza
continentale che va al di là dello stipendio medio mensile. Le statistiche
registrano un maggiore benessere, ma questo recupero d’Europa non è tanto
nelle cifre dell’economia, è nei comportamenti quotidiani, nell’orgoglio dei
cittadini, nell’ottimismo dei giovani. Queste nazioni erano già tornate in
Occidente, prima che Bruxelles certificasse la fine del purgatorio
post-comunista.
Permane una diversità di condizioni tra Stato e Stato, ma spesso anche tra
regioni all’interno di uno stesso Stato. I processi economici della nuova
era si sono in alcuni casi sovrapposti a quelli pre-esistenti in epoca
socialista. Nella provincia ungherese di Székesfehérvàr (50 chilometri a Sud
di Budapest), ad esempio, la specializzazione degli operai nel settore
tecnologico ha permesso, una volta dismesse le obsolete fabbriche di
televisori di Stato, l’intervento massiccio di multinazionali occidentali
che hanno trovato manodopera qualificata e una discreta rete di
infrastrutture, determinando la nascita di uno dei poli tecnologici più
interessanti dell’Europa dell’Est. Ai successi economici dei paesi baltici,
dell’Estonia in particolare, della Polonia, della Repubblica Ceca,
dell’Ungheria e della Slovenia, si contrappone invece la lunga recessione
che ha investito la Romania e lo stallo della Bulgaria. Uno squilibrio
evidente che si avverte ad occhio nudo attraversando le frontiere. Il
passaggio al punto di confine di Bors, fra Ungheria e Romania, è anche un
salto temporale, indietro di vent’anni, oltre che un chiaro salto
geografico: di qua l’Europa centrale, con la sua tradizione austroungarica
che riemerge dopo il lungo inverno dei totalitarismi del secolo; di là il
mondo balcanico con i suoi ritardi, la sua vita effervescente ma caotica, il
suo capitalismo da bazaar.
Tali squilibri, che si vanno accentuando man mano che chi ha superato la
fase critica continua a crescere e chi rimane indietro continua ad
annaspare, sono stati determinati da una serie di circostanze che gli
economisti riconducono a quattro fattori precisi: a) la capacità di
introdurre elementi di regolazione necessari per far funzionare il mercato,
offrendo certezze e garanzie alla proprietà immobiliare, a produttori, a
consumatori e a investitori; b) il grado di apertura agli investimenti
diretti esteri; c) il grado di attuazione delle raccomandazioni provenienti
dalle istituzioni finanziarie internazionali, in termini di smantellamento
di meccanismi di sovvenzione alle imprese, di liberalizzazione di mercati di
beni e servizi, della concreta attuazione di politiche economiche di
riduzione dell’inflazione, del debito pubblico e del debito estero; d) il
grado di stabilità politica, intesa essenzialmente come stabilità
istituzionale, come rispetto delle decisioni prese nel tempo a prescindere
dal cambio delle maggioranze parlamentari.
Adattando questo schema teorico alla realtà dell’Europa centro-orientale, è
facile scoprire come i paesi più avanzati siano quelli nei quali le riforme
finalizzate all’economia di mercato e al regime politico democratico sono
state più rapide: gli inevitabili prezzi in termini di occupazione e reddito
sono stati pagati subito, con la crisi degli anni 1992-1995, e oggi, a
quindici anni dagli eventi del 1989, questi paesi possono dire di aver
gettato alle spalle la tragica eredità del comunismo. Altrove non è stato
così: la Romania, ad esempio, ha atteso troppo tempo prima di avviare le
riforme e oggi paga questo ritardo in termini di ricchezza economica e di
democrazia interna.
Un altro elemento che accentua nuovi squilibri è quello geografico.
Prendendo come riferimento l’intera area dei paesi dell’allargamento, è la
zona nord-occidentale a crescere con maggiore velocità, in quanto più vicina
ai mercati di sbocco dell’Europa ricca che hanno sostituito i mercati di
sbocco del vecchio Comecon. Inoltre, proprio per questa maggiore prossimità
è favorita nella delocalizzazione parziale o totale di produzioni delle
aziende occidentali e nell’avvio di investimenti più impegnativi. L’Estonia
beneficia, dunque, della vicinanza dell’area scandinava, la Polonia
occidentale risente del magnete tedesco assai più della sua parte orientale,
la Repubblica Ceca è più ricca della Repubblica Slovacca, l’Ungheria
ripropone al suo interno lo stesso squilibrio tra Ovest ed Est della Polonia
e le province rumene occidentali di Arad e Timisoara, centri della
delocalizzazione delle piccole imprese venete, sono le più sviluppate di
tutto il Paese.
Le tre Europe dell’Est
Nel complesso, tuttavia, il quadro presenta molti elementi positivi. Tutte
le economie, anche quelle più indietro, non sono più ai livelli del 1989 e
hanno superato (o si apprestano a superare, se le riforme avviate non
saranno rallentate) le dure conseguenze delle ristrutturazioni. Ai confini
dell’Europa ricca e post-industriale si può già scorgere un’Europa-officina,
capace di attirare investimenti occidentali non solo per il costo del lavoro
più basso ma anche per una riconosciuta qualità della sua manodopera, per
una sviluppata rete di infrastrutture e per un ambiente che diventa sempre
più favorevole alla crescita imprenditoriale. E’ l’Europa centrale che si
snoda dal Baltico all’Adriatico, da Tallin a Lubiana, passando per Varsavia,
Praga e Budapest. Più a Est cresce un’Europa dove vengono decentrate le fasi
di produzione di beni di largo consumo tradizionali, che necessitano un più
intenso impiego di forza-lavoro. E’ l’Europa-laboratorio, che ha il cuore in
Romania e Bulgaria e prolunga i suoi confini verso Sud, fino a Tirana e
verso Nord fino a Kiev. C’è poi ancora un’altra Europa, dispersa tra le
steppe della Bielorussia e i monti della Serbia e del Montenegro: un’Europa
lontana per incertezze politiche oltre che economiche. Ma anche questa terza
Europa dell’Est è in movimento e, tra molti anni, l’Ue potrebbe esercitarvi
la sua forza di attrazione.
Pierluigi Mennitti, direttore di Ideazione.