Estonia, l'oro del Baltico
di Pierluigi Mennitti

"Se hai ancora un quarto d'ora di pazienza, vedrai l'altra faccia della transizione in Estonia", consiglia Arvo Vannaakesa, 28 anni, tour operator della Eesti-travel, seduto a un tavolino all'aperto nella centralissima piazza Raekoia di Tallin. Arvo è uno dei giovani yuppies rivitalizzato dalla ventata neoliberista che da qualche tempo soffia nelle tre Repubbliche baltiche. Telefonino alla mano, dirige un gruppo di sei collaboratori, giovani quanto lui, dediti allo sviluppo del turismo nella capitale estone. Ufficio con moquette al terzo piano di uno splendido palazzo gotico sulla via più elegante della città, dove i computer ronzano instancabili, le stampanti vomitano decine di prenotazioni al giorno e i telefoni trillano senza sosta. Il suo ufficio sembra lo scenario di un film americano su Wall Street, tavoli bianchi, mensole hi-tech, poster alla moda e grandi orologi appesi ai muri. Il suo portafoglio gli permette di stare seduto a un tavolino degli sciccosissimi kiosk in piazza Reakoja come un ricco turista occidentale, uno di quelli che Arvo indirizza ogni giorno negli alberghi della sua Estonia.

Manca un quarto alle sei, un pomeriggio di agosto sorprendentemente mite, mentre la piazza della città vecchia di Tallin lentamente si spopola: si avvicina l'ora della cena. Pazientiamo un quarto d'ora, sorseggiando una Laavi Kulta, birra d'importazione finlandese, costosissima per le tasche di un cittadino medio di qui. D'improvviso, mentre in lontananza risuonano i diciotto tocchi di una campana, nella piazza cala una strana genìa di baltici. Uno, cinque, dieci barboni sbucano dagli angoli della piazza, come richiamati da un piffero magico e cominciano a rovistare con metodo scientifico i bidoni di spazzatura dei caffè. Avanzi di spiedini, bottigliette di Coca Cola semi piene, resti di insalate e tozzi di pane ormai raffermi finiscono nei capienti fagotti che affossano le spalle di questi disperati della terra. Come zombie appena risorti da spaventose oscurità, i clochards si tuffano in silenzio in questi contenitori dell'effimero benessere estone, quasi si confondono, sudici e laceri, con i rifiuti che annusano. Ogni tanto, quando si avvicinano pericolosamente ai pochi clienti seduti al tavolino (in gran parte turisti), i proprietari dei caffè li scacciano con energia e fastidio. Non scacciano solo poveri diavoli allo sbando, ma l'immagine vivente della miseria, un incubo sempre presente dietro l'angolo.

Quello che immediatamente balza agli occhi in Estonia, ancor più che in Lettonia e in Lituania, è il gap generazionale che separa gli integrati (o coloro che si affannano a sfruttare tutte le opportunità dei tempi nuovi) dagli esclusi: i primi sono in gran parte giovani, di etnia estone, con una buona conoscenza dell'inglese, del finlandese e in qualche caso del tedesco; i secondi sono in larga parte anziani, di etnia russa, a digiuno di lingue occidentali e perfino dell'estone. Questi ultimi paiono completamente tagliati fuori dai nuovi assetti sociali ed economici di cui il Paese si sta dotando, mal si adattano ai nuovi comandamenti del capitalismo, soffrono dell'improvvisa scomparsa dei paracaduti sociali. Tanto quanto i giovani sembrano darsi un gran daffare, studiano le lingue straniere, si impossessano velocemente delle tecniche dell'economia di mercato, viaggiano instancabilmente - quando hanno un po' di denaro - alla scoperta dell'Occidente. E difatti sono proprio i giovani a contendersi i posti di lavoro nel settore dei servizi, il più innovativo, o nelle prime aziende private che caratterizzano la nuova stagione economica del Paese.

Un'area geopolitica effervescente
Il dinamismo dei giovani lascia ben sperare per la ripresa delle tre Repubbliche e dell'intera area baltica. Se la fascia della popolazione più importante e più effervescente, quella che costituisce in ogni Paese la speranza del futuro, appoggia con tenacia le riforme liberali in corso, si può facilmente prevedere che la fase più difficile della transizione è ormai alle spalle.

L'intera area del Baltico sta vivendo una nuova stagione di sviluppo. A guidarla non c'è più la Russia, impigliata in una crisi interna dagli incerti sbocchi, ma la Svezia, e soprattutto la Finlandia, desiderosa di sganciarsi alla svelta da una tutela che per decenni aveva subìto con scandinava pazienza e alla quale era stato dato il nome di "finlandizzazioneÓ. Ogni giorno decine di traghetti e aliscafi solcano l'esiguo tratto di mare che separa Tallin e Riga da Helsinki e Stoccolma; traghetti non più colmi di turisti desiderosi di vacanze a poco prezzo, ma di managers e imprenditori e anche burocrati e trafficanti d'ogni genere.

Progetti e investimenti partono dalla Finlandia e dalla Svezia per coinvolgere punti nevralgici dell'area baltica, da Tallin a Riga, da San Pietroburgo a Narva, da Helsinki ad Hamina, da Stoccolma a Rostok, tutti porti che hanno ripreso gli scambi tra loro e che costituiscono i terminali di una ragnatela di traffici che si diramano sino alla Polonia, alla Germania, alla Danimarca e all'Inghilterra. Un'area che la Finlandia vorrebbe far ruotare attorno a se stessa e collegare con l'area artica, la Carelia, Murmansk: un progetto geopolitico in grado di pesare sugli equilibri di Bruxelles e con il quale i Paesi del Mediterraneo (quindi anche l'Italia) dovranno presto fare i conti. Un pezzo d'Europa che riemerge dai ghiacci artici, dalle cortine di ferro, dai sonni della guerra fredda per irrompere con forza nella nuova politica mondiale.

L'Estonia, destinata da interessati progetti post-sovietici a diventare l'Hong Kong della Russia, ha ormai voltato lo sguardo altrove. Non verso Occidente, da dove gli estoni hanno ricevuto solo vaghe promesse e concrete delusioni, ma verso Nord. Alla Finlandia, l'Estonia è legata da rapporti strettissimi di lingua (il comune ceppo ugro-finnico), di religione e di abitudini. Dalle affinità culturali alla "colonizzazioneÓ economica il passo è stato breve. L'Estonia ha nella Finlandia il primo partner commerciale: secondo i dati del 1995, il 32,6% delle importazioni proviene da Helsinki contro il 16,1 dalla Russia, il 9,6 dalla Germania, l'8,5 dalla Svezia e il 2,6 dall'Italia. In direzione inversa, il 21,4 % della produzione estone viene esportata in Finlandia, contro il 17,5 in Russia, il 10,8 in Svezia, il 7,2 in Germania.

Anche la classifica degli investitori esteri in piccole e medie imprese estoni vede al primo posto la Finlandia (20%), seguita dalla Svezia (18%), dalla Russia (7%) e dagli Usa (6%). Notevoli anche gli investimenti finlandesi e svedesi in un settore cruciale come quello della telefonia mobile. La Estonian Mobile Telephone Company, che detiene di fatto il monopolio nel campo dei telefonini (95% del mercato interno delle comunicazioni cellulari e il 90% di quello dei Gsm), è composta da tre azionisti: la Telecom Estonia (51%), la svedese Telia (24,5%) e la Telecom finlandese (24,5%). Stessa composizione per la Estonian Telephone, che ha avvolto in una ragnatela di cavi a fibre ottiche l'intera Estonia, collegandola ai networks di Finlandia, Svezia, Lettonia e Russia: dal 1994 al 1995 i profitti sono saliti da 37 a 76 milioni di corone estoni.

Dunque, grazie al sostegno dei benevoli cugini e ad una coraggiosa riforma in senso liberista dei governi di centro-destra che si sono susseguiti negli ultimi anni, l'Estonia ha invertito il dato negativo della crescita economica annua, passando dal -8,4% del 1993 al +3,2% del 1995, dato confermato anche per il 1996. Se la capitale è sempre un po' lo specchio del Paese, un grande effetto fanno i restauri ormai quasi completati del centro storico di Tallin. Le antiche stradine che convergono a dedalo nell'antica piazza Raekoja sono state tirate a lucido. Gli antichi palazzi del Duecento, lussuose abitazioni dei reggenti della città, tornano al vecchio splendore, così come le basiliche ortodosse e le chiese protestanti di epoche più recenti. Su Toompea, l'incantevole città alta di bellezza paragonabile al vecchio centro di Praga, si appunta la sfida del governo: farne a un tempo il simbolo dell'antica Estonia che risorge, in contrapposizione con la città bassa deturpata dalle tristi urbanizzazioni di epoca sovietica, e un luogo di attrazione turistica per completare la già vasta offerta di parchi naturali e stabilimenti balneari.

Il tramonto del sogno panbaltico
A dispetto della prospettiva con cui l'Occidente ancora osserva i movimenti nell'area baltica, Lettonia, Lituania ed Estonia si presentano all'Europa in ordine sparso. Restano organizzazioni sovranazionali come l'Assemblea baltica (l'unica ancora in grado di esercitare un effettivo ruolo di coordinamento), il Concilio degli Stati del mar Baltico, il Concilio baltico dei ministri. Ma il sogno di una politica comune è tramontato all'indomani della dichiarazione d'indipendenza. Ognuno per sé, nel tentativo di individuare le vie d'uscita dal mondo comunista.

Le tre Repubbliche hanno sofferto per una doppia cortina di ferro: la prima, quella che separava il mondo libero occidentale dagli Stati comunisti dell'Europa dell'Est; la seconda, quella che separava l'Unione Sovietica dai suoi stessi paesi satelliti. Il panorama di rovine emerso dopo la caduta del muro di Berlino ha reso chiaro quanto le regioni inglobate nella struttura statale dell'Urss fossero in grave ritardo anche rispetto agli Stati satelliti come la Polonia, la Cecoslovacchia o l'Ungheria. Assenza di organizzazioni statali, sistema produttivo finalizzato alle esigenze centralistiche di Mosca, economia strettamente legata al mercato interno sovietico, mancanza di monete ed eserciti nazionali, infrastrutture d'anteguerra. Di fronte a tanto sfacelo è stato quasi naturale (anche se politicamente avventato) voltare completamente le spalle al vecchio mondo e affidarsi alle spinte nazionaliste e alle illusioni di un facile capitalismo.

Il programma economico dei nazionalisti puntava a un'autarchia che, per le scarse materie prime dei tre piccoli Paesi, non poteva non rappresentare una strategia dal fiato corto. Le illusioni capitalistiche, al contrario, si sono immediatamente infrante contro l'ostacolo di una produzione di modesta qualità, non bilanciata da costi del lavoro competitivi con quelli delle aree emergenti del Sud-Est asiatico. Aver di colpo tagliato i ponti con gli Stati rimasti all'interno dell'ex impero sovietico, unico mercato capace di assorbire nei primi anni le manifatture baltiche, si è rivelata una mossa sbagliata.

I rapporti con la Russia, anche con la nuova Russia di Eltsin, sono ancor oggi tesi e aggravati dalla questione delle minoranze russe che vivono nelle nuove Repubbliche. Non è un problema di poco conto, visto che le politiche di russificazione, perseguite con feroce tenacia da Mosca, hanno alterato l'equilibrio etnico dei tre piccoli Stati. I russi rappresentano il 32% della popolazione in Estonia, il 30% in Lettonia; solo in Lituania sono l'8,6%. Inoltre, Mosca mantiene il controllo determinante delle fonti di energia, dei carburanti necessari a far muovere le macchine produttive delle tre Repubbliche. Un potere che, in mancanza di accordi di buon vicinato, la Russia esercita con forti pressioni e ricatti.

La necessità di mantenere buoni collegamenti commerciali con Mosca e con gli altri Stati dell'ex impero sovietico è apparsa evidente un po' troppo tardi ai gruppi dirigenti baltici. L'esempio di Vilnius è illuminante: mentre all'indomani dell'indipendenza le ambasciate lituane spuntavano un po' dappertutto nei Paesi occidentali, solo nel 1992, dopo il ritorno al potere del comunista Brazauskas, venne insediata un'ambasciata in Bielorussia, uno dei vicini con cui gli scambi commerciali e quelli legati alle materie prime sono più intensi. L'approccio ideologico utilizzato dai primi governi baltici per affrontare le questioni di politica estera, seppur comprensibile e dettato dall'inesperienza, ha prodotto cattivi risultati. La crescita del prezzo del gas e del petrolio russo è stata uno dei principali fattori che ha minato la convinzione baltica che la fine dei diktat sovietici avrebbe automaticamente significato efficienza e benessere. Per porvi rimedio, i lituani hanno pensato bene di non dismettere la vecchia centrale nucleare di Ignalina (di impianto simile a quella di Chernobyl), tornata a livelli di sufficiente sicurezza dopo un restyling svedese.

I Paesi baltici e l'Europa
Se i rapporti con gli Stati della Csi sono stati piuttosto turbolenti, quelli tra Vilnius, Tallin e Riga non è che siano molto migliori. Dietro la retorica "panbaltica", si muovono gelosie, diversità, competizioni che rendono difficile lo sviluppo di una politica comune. Questo riflette, d'altronde, un diverso grado di sviluppo sulla strada delle riforme liberiste. L'Estonia, grazie a una politica riformista più rigorosa e all'aiuto consistente della Finlandia, si trova in netto vantaggio rispetto alla Lituania e alla Lettonia e non è improbabile che, se gli organi istituzionali di coordinamento sovranazionale dovessero ulteriormente perdere potere, ben presto Tallin, spalleggiata da Helsinki, chiederà all'Europa di staccare il biglietto d'ingresso a Maastricht senza attendere le altre due Repubbliche. Sarebbe probabilmente la fine anche di un sogno panbaltico "minimo", ma forse questa cooperazione, a parole tanto auspicata, potrebbe riproporsi su un piano meno ideologico, meno costruttivistico e dunque più pragmatico.

Oggi l'Estonia rappresenta davvero la piccola locomotiva dell'area. I suoi successi sono di esempio e di stimolo per gli altri due governi. Da qualche mese la Lettonia si è lasciata alle spalle le incertezze e i tentennamenti degli anni passati e ha imboccato con decisione la strada di un deciso rinnovamento delle strutture economiche. Il porto di Riga sembra tornato ai fasti degli Anni Venti, brulicante di attività e di traffici, con i traghetti che a ritmo continuo salpano e approdano alle nuove banchine, riportate a un buon grado di efficienza da intense opere di ammodernamento. I governanti lettoni sembrano voler imitare l'Estonia anche per quel che riguarda la ricerca di uno sponsor. Abbandonate le velleità autarchiche, Riga ha stretto rapporti solidi con Stoccolma, anche se l'impegno svedese non è paragonabile per intensità e convinzione a quello finlandese.

E anche la cattolica Lituania, attardatasi nelle secche di un tormentato post-comunismo, ha voltato pagina alle ultime elezioni e promette un'energica riforma liberista. Il tempo perduto dovrà essere recuperato a prezzo di grossi costi sociali: percorrendo le sonnolente strade della campagna lituana, dove si avverte inconfondibile l'atmosfera di una tragica rilassatezza, è difficile farsi troppe illusioni sulle effettive capacità del più grande Paese baltico di tirarsi fuori dalle secche della stagnazione. Eppure l'Estonia è lì a dimostrarlo: scorciatoie verso il benessere non ne esistono. La strada dello sviluppo economico è lastricata di pazienza e coraggio, di decisioni e di rischi.

Ancora per molti anni, ogni sera, allo scoccare dei diciotto rintocchi, i barboni di Tallin torneranno a spezzare la magia di piazza Reakoia e a ricordarci quanta sofferenza e quanta umiliazione aleggi ancora tra le macerie del post-comunismo. Un ammonimento severo affinché i loro figli non abbiano, neppure per un secondo, la nostalgia di un misero passato.

 

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