Reportage. Est Europa, l'incubo socialista delle periferie
di Alessandro Napoli
Il negozio di
telefonini ricavato in una cantinola, quello di fiori e la pizzeria ospitati
in un superstite villino degli anni Trenta, la superette di quartiere e la
farmacia sistemate in prefabbricati in metallo. E poi metri quadri e metri
quadri di verde o di niente per la cui manutenzione le municipalità si
devono svenare, e soprattutto edifici di dieci-dodici piani interamente
costruiti (facciate comprese) in cemento prefabbricato, con la stessa
tecnica con cui in buona parte del resto del continente si tirano su
capannoni industriali o ipermercati, ma con materiale scadente e rifiniture
molto approssimative. Calcate le scale di uno di questi palazzi e scoprirete
una delle cose che ancora distinguono le città del Centro e dell’Est
dell’Europa da quelle che stanno a Ovest: in questi palazzi le scale sono in
cemento, come in quelle dei condomini dell’altra parte, ma qui il cemento
non è ricoperto da niente, veniva solo levigato. Il sogno degli urbanisti
socialisti era mettere in pratica il modello Bauhaus, tutto razionalità e
geometria, i dettami del piano imponevano risparmio.
Intanto c’è stato “il cambiamento” e i piccoli commerci che si sono
moltiplicati all’inizio degli anni Novanta non hanno trovato gli spazi
adeguati per insediarsi, rimediando con un caotico fai-da-te, mentre il
tempo in ogni caso svela l’imbroglio: chi non ha potuto sostituire gli
infissi socialisti delle case che ti davano non appena ti sposavi (e che
sono velocemente invecchiati) si tiene gli spifferi gelati d’inverno e la
mancanza di difesa dal caldo dell’estate. Visti da lontano, o magari
dall’aereo, i quartieri costruiti all’epoca della democrazia popolare
sembrano un miracolo dell’urbanistica e dell’architettura razionalista del
ventesimo secolo; visti da vicino, e soprattutto se vissuti dall’interno,
possono essere peggio dei complessi HLM delle cités della banlieue parigina,
altro esempio di quale malessere sociale possano generare le generose idee
di chi vuole ridurre il mondo a quella cosa semplice che non è, ingabbiando
le relazioni sociali in geometrie semplicissime: cubi e parallelepipedi. Può
capitare, e anzi di solito capita, che questi esempi di intenzioni buone per
lastricare la via dell’inferno stiano a poche centinaia di metri da centri
storici fra i più belli d’Europa, che nulla hanno da invidiare sotto tutti i
punti di vista - arredo urbano incluso - ai più belli e meglio tenuti
dell’Ovest.
Ma nei centri storici sono arrivati o stanno arrivando gli investimenti
delle immobiliari straniere che hanno trasformato e continuano a trasformare
edifici plurisecolari in complessi per uffici e negozi, ai centri storici
dedicano risorse le municipalità, usandoli come biglietti da visita patinati
per attrarre turisti e investitori stranieri. Risveglio c’è persino nei
quartieri costruiti tra la fine del diciannovesimo secolo e la seconda
guerra mondiale, i più odiati dal passato regime perchè simboli del periodo
più borghese della storia dell’Europa centro-orientale, con i condomini
“socializzati” e poi lasciati a marcire per quattro decenni e più. Qui i
proprietari dei singoli appartamenti si organizzano come possono e con quel
che possono, fanno ridipingere quel che è loro, mentre ai piani terra
spuntano giorno dopo giorno negozi e pub.
Dai quartieri “socialisti” si tengono invece alla larga quasi tutti, a
cominciare dalle nascenti classi medie che li abbandonano per trasferirsi
nelle case monofamiliari che si costruiscono il più vicino possibile alla
campagna e naturalmente dai neo-ricchi, anch’essi sostenitori della
superiorità della casa unifamiliare, da intendersi pero’ nella variante
obbligatoriamente corredata di piscina (se coperta e con annessa sauna
meglio, se in collina meglio ancora). Ci si avvicinano soltanto alcune
multinazionali della grande distribuzione e della ristorazione veloce,
tedesche, inglesi, francesi e americane, occupando con i loro mall metri
quadri e metri quadri di niente, altrimenti saldamente presidiati solo da
cani e proprietari di cani. Certe volte c’è da chiedersi che cosa renda
questi quartieri quasi accettabili, naturalmente solo da un punto di vista
estetico, e la risposta sono forse le iniziative della Coca-cola, della
Vodafone, della Sony o della Samsung che con i loro cartelloni pubblicitari
coprono decine di metri quadrati di facciate senza finestre e contribuiscono
al finanziamento delle spese di manutenzione ordinaria dei condomini.
Oppure, più semplicemente, i semafori, che almeno esibiscono tre colori
invece dell’uniforme grigio dei pannelli in cemento prefabbricato.
I quartieri “socialisti” sono l’emergenza urbana nei paesi che stanno
superando o hanno superato la transizione dal piano al mercato e dalla
democrazia popolare alla democrazia senza sovrabbondanza di aggettivi. Non
sono parti delle città, ma “cités”, per giunta molto poco radieuses:
cittadelle prima che quartieri. Stanno alle città dell’Europa
centro-orientale come i centri medioevali in degrado stanno alle città
dell’Europa mediterranea. Corpi estranei che vanno recuperati, integrati col
resto e metabolizzati. In questo momento in tutti i paesi candidati
all’adesione all’Ue si lavora alla preparazione dei documenti di
programmazione sui quali si fonderanno i “Quadri comunitari di sostegno”. Il
recupero di pezzi rilevanti di città e la lotta contro i fenomeni di
esclusione sociale che in quei pezzi di città si annidano dovrebbero essere
fra le priorità. Perché non c’è sviluppo economico senza città, e non ci
sono città dove ci sono troppe cittadelle.
(c)
Ideazione.com (2006)
Home
Page
Rivista | In
edicola | Arretrati
| Editoriali
| Feuilleton
| La biblioteca
di Babele | Ideazione
Daily
Emporion | Ultimo
numero | Arretrati
Fondazione | Home
Page | Osservatorio
sul Mezzogiorno | Osservatorio
sull'Energia | Convegni
| Libri
Network | Italiano
| Internazionale
Redazione | Chi
siamo | Contatti
| Abbonamenti|
L'archivio
di Ideazione.com 2001-2006