Allargamento. Le spine della nuova Europa
di Massimo Lo Cicero
Il governo di
sua Maestà Britannica ha idee originali in materia di politica regionale per
l’Europa di domani ed ha anche una maniera singolare di coinvolgere gli
elettori nella loro elaborazione. Vale la pena di commentare in primo luogo
il punto di metodo, dal momento che le ipotesi di politica economica
avanzate da Downing Street sono esposte un sito web: il governo di Blair
utilizza, infatti, la information and communication technology per
consolidare la fiducia degli elettori ed enfatizzare la condivisione
democratica delle proprie strategie economiche. Una scelta che rafforza
oggettivamente, al tavolo della trattativa con gli altri governi europei, le
opinioni dei ministri di Sua Maestà. Ma veniamo al merito della questione
che viene proposta ai cittadini anglosassoni, sulla quale si possono
pronunciare, anche via e-mail, entro il 4 luglio prossimo venturo. Il
governo britannico ritiene che l’architettura di fondo delle politiche
regionali debba essere mantenuta in essere anche dopo l’allargamento a
venticinque paesi dell’Unione Europea, ma che l’applicazione di quei
principi debba essere ancora più stringente sotto il profilo logico. Dunque,
deve cambiare il regime operativo con cui i principi vengono posti in essere
e diventano norme di comportamento.
L’analisi delle ragioni che conducono a politiche di sviluppo regionale,
differenziate per singole aree, viene condotta a partire dalle differenze di
produttività per addetto che si osservano nelle varie situazioni
considerate. Il valore del prodotto generato da ogni unità occupata dipende
da molte variabili: la qualità delle tecnologie utilizzate per produrre, il
numero delle persone che lavora ed il numero di coloro che non lavorano e
restano disoccupati, le dimensioni complessive della popolazione, il
quoziente che misura la partecipazione al mercato del lavoro. Quest’ultima
variabile si chiama tasso di partecipazione attiva al mercato del lavoro e
si misura attraverso il quoziente tra la somma di occupati e disoccupati ed
il totale della popolazione in grado di lavorare, cioè in età superiore ai
14 anni ed inferiore ai 65 anni. In Italia, ad esempio, abbiamo un alto
tasso di disoccupazione ma anche un basso tasso di partecipazione al mercato
del lavoro, in particolare nel Mezzogiorno.
Contano, insomma, nella dimensione del prodotto pro-capite la demografia, la
tecnologia e le dimensioni e l’efficienza del mercato del lavoro. La
politica economica deve intervenire per rimuovere strozzature e deformazioni
sul mercato del lavoro e su quello delle tecnologie e deve garantire un
ordinato ed efficace funzionamento del mercato dei capitali. Ma deve allo
stesso tempo garantire anche un regime di competizione sul mercato finale
dei beni e dei servizi. Si tratta di interventi per ridurre il “fallimento
dei mercati”, cioè il caso in cui non si riesca ad arrivare alla piena
occupazione delle risorse umane esistenti o non si riesca a trasformare il
valore potenziale in benessere per i consumatori ed un parte di quel valore
venga invece “catturato” come rendita da monopolio da coloro che hanno un
eccesso di potere sulla formazione dei prezzi nel mercato dei beni e dei
servizi. Ogni governo dovrebbe agire con gli strumenti più opportuni per
raggiungere queste finalità mentre l’Unione Europea dovrebbe finanziare
adeguatamente gli strumenti che ciascun governo ha scelto.
Ma, per mettere in pratica questo principio, bisogna distinguere la
dimensione della finanza disponibile dalla individuazione degli strumenti
che si vogliono applicare. Questa schema si completa con due parole ormai
famose anche per i grande pubblico: sussidiarietà tra gli Stati e
decentramento regionale nella formazione delle decisioni, di cui,
successivamente, le amministrazioni locali devono rendere conto ai propri
elettori. Applicare queste regole di principio in termini rigorosi comporta,
nella proposta del governo inglese, alcune conseguenze.
In primo luogo, gli Stati membri dell’Unione allargata a venticinque paesi
devono intervenire in termini reciprocamente sussidiari: nel senso che gli
Stati più ricchi devono trasferire risorse finanziarie a quelli più poveri
per consentire che, nella sfera dell’autonoma responsabilità degli Stati
poveri, ognuno di essi realizzi adeguate politiche regionali al suo interno.
La proposta inglese, insomma, è molto lineare. Il decentramento è la
soluzione da offrire alla domanda di rendicontazione e controllo che viene
dal basso. La sussidiarietà si manifesta con il trasferimento di aiuti
finanziari, per generare strumenti scelti in piena autonomia dai singoli
paesi destinatari degli aiuti: per superare i divari regionali che le
economie delle nazioni più povere accusano al proprio interno. I paesi con
un reddito pro-capite inferiore al 90% della media europea sono paesi
meritevoli di aiuto da parte dei paesi che, al contrario, superano quella
media. Con questa soluzione la Spagna e l’Italia, non essendo paesi poveri,
perdono gli aiuti europei destinati al superamento dei divari regionali,
anche se nell’ambito delle proprie economie ne esistono di marcati.
L’esclusione dagli aiuti europei, insomma, deriverebbe dalla circostanza che
essi, pur avendo grandi divari interni, sarebbero mediamente più ricchi dei
paesi nuovi entranti. I secondi sono omogeneamente poveri, i primi sono
ricchi ma a regioni alternate.
La proposta inglese, infine, chiede anche il superamento delle politiche di
assistenza all’agricoltura che, sia detto per inciso, si risolvono in un
ulteriore corposo trasferimento, che premia la Francia e la Germania che non
si possono certo considerare paesi mediamente poveri. Non sappiamo quali
saranno i risultati della consultazione tra i cittadini inglesi su queste
idee di politica economica per la nuova Europa. E’ facile prevedere che la
coesistenza di interessi ed opinioni tanto divergenti, nell’Europa
allargata, sarà una strada abbastanza in salita.
(c)
Ideazione.com (2006)
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