Il duello per l'eredità
di Vittorio Mathieu
[24 mag 07]


Seguo volentieri L’Eredità a quiz (RaiTv1), perché imparo un mucchio di cose: ad esempio l’origine del detto “Questo è un altro paio di maniche”. Trovo un po’ stucchevoli, però, le ripetizioni del conduttore Carlo Conti. È vero che la regolarità è essenziale a qualsiasi rito: ma le spiegazioni non sono necessarie – a meno che servano a prolungare il gioco fino all’ora prestabilita – e risultano spesso ovvie. Nell’ultima fase, detta “Il duello”, se uno dei due concorrenti è così staccato da non poter raggiungere l’altro, quando rimangono da scoprire due sole domande è inutile avvertirlo: “Attento a scegliere la domanda, perché se sbaglierà avrà perso, ma se non sbaglierà il suo competitore avrà una sola domanda tra cui scegliere, che sarà decisiva”. Quando nelle fasi precedenti chi ha sbagliato “punta il dito” verso un altro concorrente, che dovrà scegliere tra tre domande – A, B, C – è vero che dietro le quinte c’è un notaio che controlla tutto, ma siamo sicuri che le altre due domande esistano davvero?

Le domande sono di due tipi: di cultura generale, spesso facilissime, o di cultura cinematografica e canzonettistica, a cui uno come me potrebbe solo rispondere a caso. Molti preferiscono il secondo tipo; e tutti, in ciascuna situazione, si comportano allo stesso modo, tanto che si direbbero istruiti a farlo. Quando, ad esempio, si tratta di evitare l’unica risposta sbagliata che “dà la scossa”, il concorrente in attesa del responso assume sempre l’espressione di uno che teme di essere fulminato. E non è mai scettico come dovrebbe quando si tratta di portare a casa il premio, trovando la parola che crea una connessione con altre cinque, scelte ogni volta tra due. Il conduttore fa notare che potrebbe trattarsi di una cifra ingente (ad esempio 180mila euro), ma ci sono statisticamente tre probabilità su cento che la cifra rimanga intatta, potendosi cinque volte dimezzare. E la parola chiave è talmente occulta, e qualche volta assurda, che la probabilità di vincere è una o due su dieci. Mi meraviglia perciò che quando il concorrente è invitato a scriverla resista alla tentazione di scrivere una qualsiasi parola oscena.

La scena più divertente, però, è quando il concorrente ignora la risposta da scegliere tra tre o quattro e la cerca per ragionamento. Esempio (inventato da me): “Quale tra questi personaggi è chiamato da Dante “il Santo Atleta”? 1) Sansone; 2) San Domenico; 3) Gino Bartali; 4) Fausto Coppi” E il concorrente: “Sansone era un campione di sollevamento pesi, ma non sempre santo. San Domenico è escluso perché non era certamente un atleta. Rimangono Fausto Coppi e Gino Bartali, ma Coppi aveva una relazione con la Dama Bianca, che impedisce di dirlo santo. Non rimane che Bartali che, quando il Giro di Francia riposava nel Sud, faceva una tappa per conto proprio a Lourdes. Dico Gino Bartali”. Conti, lodata a lungo la capacità deduttiva del concorrente, obietta che Dante non poteva avere doti così profetiche da prevedere nel Trecento l’andamento dei Giri di Francia, e fa venire in primo piano, con molti ancheggiamenti, una delle quattro “professoresse” a spiegare perché si tratti proprio di San Domenico.

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