Se le liberalizzazioni somigliano troppo alle socializzazioni
di Vittorio Mathieu
[23 lug 07]


Quando ero giovane era di moda il socialismo: un socialismo che vedeva come proprio compito principale le socializzazioni. L’apertura a sinistra consisté nell’allearsi a un partito socialista che era disposto a staccarsi dal comunismo a patto che, oltre a fare le regioni, si socializzasse l’energia elettrica, in attesa di qualcos’altro. Oggi la terminologia è cambiata: molte correnti associate al Partito socialista europeo, non volendo più avere nulla in comune con il comunismo, si propongono di privatizzare e liberalizzare un po’ tutto ciò che si era socializzato.

La scelta dei termini è importantissima per determinare le idee; quindi chiunque voglia essere liberale non può che rallegrarsi che anche gli ex comunisti parlino di liberalizzazioni. Una delle poche costanti del liberalismo, infatti, è stata la fiducia nel privato e la diffidenza per lo Stato. Dunque i liberali si compiacciono della nuova terminologia. Una certa delusione nasce, però, quando si vede in che cosa consistano le presunte liberalizzazioni: assomigliano stranamente alle vecchie socializzazioni. Lo Stato dismette la proprietà di enti e di imprese: li vende, mentre prima li comprava. Chi era espropriato, infatti, riceveva un indennizzo, chi ora diventa titolare dell’impresa versa una certa somma. Ma le clausole sono concepite in modo che il controllo dell’impresa resti all’ente pubblico. In generale allo Stato.

Si è inventata anche la privatizzazione di enti culturali, come le Accademie. A questi enti si è detto di cercarsi in campo privato le somme per funzionare. Lo statuto, perciò, doveva essere modificato. Ma il bilancio continuava a essere sottoposto a un collegio di revisori dei conti più invadente di prima, controllato dai rappresentanti del ministero. Il cambiamento terminologico rallegra egualmente, perché è pur sempre il segno di un cambiamento dell’egemonia culturale. Ma Gramsci ci ha insegnato che l’egemonia culturale è solo un mezzo: lo scopo è il controllo politico. Purtroppo Tomasi di Lampedusa ha insegnato a sua volta agli statalisti che anche nel linguaggio è necessario che tutto cambi perché tutti resti come prima.

 

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