Salari, la rischiosa politica del ricatto sindacale
di Vittorio Mathieu
[11 gen 08]


Chi lavora non si aspetta che la sua retribuzione diminuisca col tempo. Ciò può capitare in periodi di forte crisi deflazionistica, come dopo il 1929: una crisi del genere oggi non capita più, perché tutti i poteri che contano si sono convertiti all’inflazione. Accade così che l’inflazione faccia diminuire il potere di acquisto di alcuni prima che di altri. Allora ci si lamenta che i prezzi aumentino “in modo ingiustificato” (come ci si possa attendere che chi vende sia pronto a vendere a un prezzo inferiore a quello che gli pagano è incomprensibile); ed è logico che si chieda un adeguamento.

Non tutti i rapporti debitori che l’inflazione intacca si adeguano, e alcuni lo fanno più lentamente di altri. In questo caso i creditori hanno ragione di protestare. Contro chi vende la protesta efficace è non comprare, rivolgersi ad altri o ad altro (finché si può); ma contro chi produce inflazione (cioè contro lo Stato che è il massimo debitore) è giusto che la protesta divenga politico-sindacale.C’è, però, un’altra eventualità: che si diventi tutti insieme più poveri perché capitale e lavoro si combinano meno bene di prima, o perché un bene, attualmente indispensabile (come il petrolio) è scarso e non è ancora stato sostituito da un altro più abbondante (come l’energia nucleare). In questo caso la pressione sindacale può favorire chi è in grado di esercitare un ricatto, ma non può rovesciare la situazione. E questo è il caso dell’Italia d’oggi.

L’unica cosa che ci si può augurare, in questi casi, dalla politica è che favorisca una situazione in cui capitale e lavoro si combinino meglio per accrescere l’offerta, calmierando così i prezzi. Che l’autorità ceda a chi in quel momento è in grado di esercitare un ricatto non è augurabile per nessuno. Nel medio periodo, neppure per il ricattatore.

 

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