Il disengagement contro il terrore
di Andrea Gilli

Ideazione di maggio-giugno 2006

Dying to win:
The Strategic Logic of Suicide Terrorism
Robert A. Pape

Random House,
New York (usa), 2005
pp. 335, $ 29,95

A partire dall’11 settembre il mondo si è accorto drammaticamente di un fenomeno che già da anni stava tormentando la vita di molti dei suoi abitanti ma che fino ad allora non era mai riuscito a prendere “il centro della scena”. Quel fenomeno è il terrorismo suicida, che con l’attentato alle due Torri di New York ha raggiunto il suo apice sia dal punto di vista operativo (è stata l’operazione suicida con il maggior numero di morti nella storia) che mediatico. Eppure il terrorismo kamikaze, come detto, esiste da molto tempo. Le avanguardie di questa pratica militare possono essere rintracciate infatti nei secoli addietro: addirittura negli zeloti ebrei che combattevano i romani e nei fanatici hasshashin che terrorizzavano il Medio Oriente nel 1300 dopo Cristo. E, se guardiamo all’epoca contemporanea, non possiamo non rilevare come questo fenomeno mieta vittime da almeno un quarto di secolo. Quindi il fenomeno è tutt’altro che nuovo.
La prima azione ha infatti avuto luogo nel 1982, in Libano, per mano di Hizbullah contro le truppe israeliane. Ne sarebbero poi seguite altre. E da allora gli attentati kamizake, così classificabili (ovvero quelli in cui si ha prova certa del fatto che l’attore fosse consapevole della propria azione), sono stati 315. Solo dall’11 settembre, però, il mondo ha iniziato ad interrogarsi sulle ragioni di questi (folli, per noi) gesti. Molte risposte sono state date: alcuni sostengono che tutto ciò è attribuibile all’Islam. Altri al fanatismo religioso più in generale. Altri ancora sostengono che sono ragioni economiche (povertà) o politiche (assenza di democrazia) a determinare questa macabra scelta personale. Robert Pape, docente di Scienza politica all’Università di Chicago, in questo libro dal suggestivo titolo Morire per vincere (che ricalca il suo precedente e sempre straordinario lavoro intitolato Bombing to win), si propone di dare una risposta scevra di pregiudizi a questa difficile domanda. Con il sostegno del Chicago Project of Suicide Terrorism della medesima Università americana, il docente ha intrapreso uno lavoro mastodontico: sono stati reclutati studenti russi, israeliani, arabi, indiani, srilanchesi, turchi e curdi così da poter studiare nel dettaglio ogni singolo attentatore, tracciarne la storia, indagarne gli orientamenti politici, religiosi, la formazione, la cultura. Diari personali, giornali, lettere private e quant’altro sono stati setacciati, scandagliati, per trovare prove e conferme di persone che hanno deciso di farsi saltare in aria, per vincere. La ricerca dunque è all’insegna della più accurata e rigorosa metodologia d’indagine: come ci si aspettava dalla prestigiosa tradizione dell’Università di Chicago (nella quale, ricordiamo, hanno insegnato giganti come Morgenthau, Wohlstetter, Strauss o Simon). Proprio alla luce della metodologia utilizzata, i risultati a cui giunge l’autore risultano ancora più sorprendenti. Pape rileva innanzitutto un dato probabilmente sconosciuto ai più: il maggior numero di attentati suicidi (76) è stato portato a termine dalle Tigri Tamil, che sono di religione induista ma hanno un’impostazione marxista-leninista, quindi laica. Il primo mito è così sfatato: non sono solo i musulmani a farsi saltare in aria e non è l’indottrinamento religioso che spinge a compiere questi gesti. Ma è con il suo modello teorico che, probabilmente, Pape lascerà stupiti (per non dire stupefatti) molti osservatori. Se infatti né l’Islam né l’indottrinamento religioso offrono una ragione seriamente accettabile e statisticamente provabile, allora quale è la causa del terrorismo kamikaze? Pape non ha dubbi: analizzando i dati raccolti sono solo due variabili che ricorrono con una certa frequenza, e che quindi mostrano una certa significatività: (a) la presenza di truppe (ritenute a torto o a ragione) straniere su un determinato suolo abitato da individui (b) di religione differente da quelle delle truppe medesime. È il caso dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza o in Cisgiordania. È il caso delle truppe israeliane in Libano. È il caso delle truppe turche nelle zone a maggioranza curda. È il caso delle truppe indiane in Sri Lanka. È il caso, secondo Pape, delle truppe americane in Arabia Saudita.
Non c’entra l’indottrinamento, non c’entra il fanatismo, non c’entra la povertà. Quei 315 terroristi suicidi, in gran parte, appartenevano ad élite colte, benestanti, laiche. Il primo attentato di Hizbullah fu addirittura compiuto da una ragazza di religione cristiana. Pape trae quindi le sue conclusioni. Il terrorismo suicida paga, terribilmente. Proprio per questo motivo viene perpetrato: e proprio per questo motivo, quindi, bisogna capirne le ragioni. Così da sconfiggerlo. E le ragioni, secondo Pape, come detto, si trovano nelle diverse (anche presunte) dispute territoriali ancora irrisolte e sulle quali si confrontano religioni differenti. In altre parole, è ancora il nazionalismo a tenere la scena. L’autore è quindi netto: il disengagement è l’unica soluzione per battere il terrorismo suicida. Anche in Iraq dove, rileva Pape, combattendo una guerra contro il terrorismo lo si starebbe fomentando in quanto si portano truppe di una religione su un territorio dove ve ne è un’altra. Lo stesso vale a Gaza, in Kurdistan, in Sri Lanka. E in Arabia Saudita. Come Pape possa però spiegare un fenomeno (il terrorismo in Iraq) senza averlo studiato rimane uno dei pochi punti oscuri del suo volume.

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