
 
         
		
		Il fallimento storico del socialismo
        di Antonio Donno
        
         Ideazione 
        di novembre-dicembre 2006
		 
      
 
		
 
        
		Il 
		paradiso in terra.
		Ascesa e caduta del socialismo
         Joshua Muravchik
        
		  
		Torino, 
        Lindau, 2005
         pp. 553, € 38
Il socialismo, nelle sue varianti socialdemocratica e comunista, è stato un fallimento storico: questa è la conclusione del libro di Joshua Muravchik, dopo una lunga ed articolata analisi condotta attraverso lo studio di alcuni casi particolarmente significativi dei tre momenti più importanti della lunga storia dell’idea e della pratica del socialismo.
Innanzitutto, gli inizi. Muravchik esamina l’evoluzione dei tentativi pratici e teorici di dare vita all’aspirazione degli uomini all’uguaglianza. L’esperienza violenta di Babeuf, nel vortice della vicenda sanguinosa della rivoluzione francese, e quella di Robert Owen, condotta in modo pacifico e gradualista sul suolo americano attraverso le esperienze comunitarie, fallirono per l’impossibilità di conciliare la libertà individuale e l’obiettivo dell’uguaglianza. Fin dagli esordi, dunque, il socialismo si incagliò nel problema dei problemi: l’inconciliabile dicotomia libertà/uguaglianza. Tale problema restò sempre il nodo irrisolto del socialismo e, secondo Muravchik, la causa prima del suo fallimento. Il marxismo cosiddetto scientifico di Marx ed Engels tentò di aggirare l’ostacolo: la libertà individuale si annullava nella classe e lo scontro titanico tra borghesia capitalista e proletariato poneva la storia dell’evoluzione umana al di fuori della volontà individuale, intesa come motore dei processi storici. Bernstein comprese il problema ma lo risolse con la quadratura del cerchio: il superamento del capitalismo poteva avvenire nel rispetto delle libertà individuali borghesi. Fu l’idea che dette vita alla versione socialdemocratica del socialismo.
Il secondo momento, quello del trionfo (o dell’illusione del trionfo), fu inverato dalla rivoluzione bolscevica in Russia e dall’ascesa del fascismo in Italia, le due varianti di sinistra e di destra del socialismo. Due varianti, tuttavia, che avevano in comune la pratica della violenza e la soppressione delle libertà individuali. Ma soprattutto l’esaltazione del Dio-Stato.
Con la crisi del comunismo sovietico lungo tutto l’arco del secondo dopoguerra, l’idea socialdemocratica sembrò la via più percorribile verso la giustizia sociale garantita nel quadro dei principi liberali. Muravchik dedica un capitolo assai interessante all’esperienza di Clement Attlee in Gran Bretagna, un’esperienza, tuttavia, che si infranse sullo scoglio mai superato nella storia del socialismo: lo statalismo, che Attlee affermò per mezzo di un numero cospicuo di nazionalizzazioni. Ma le nazionalizzazioni crearono sprechi e soprattutto bassa produttività e l’economia inglese affondò. Il fallimento fu cocente.
Così, la terza fase del socialismo, la fase del crollo, fu anche il momento del trionfo dell’individualismo liberale e del capitalismo privato. Irretitasi la socialdemocrazia nelle sue contraddizioni di fondo, crollato il comunismo in Russia e mascherato in Cina, Gorbaciov e Deng Xiao-Ping decretarono che la via capitalista era l’unica che potesse garantire il benessere.
I grandi 
		capi sindacali americani, Samuel Gompers e George Meany, lo avevano 
		capito fin dagli anni Trenta e avevano condotto il movimento operaio 
		americano sulla via sicura e stabile della contrattazione salariale 
		ancorata solidamente all’interno dei processi del capitalismo americano. 
		In Europa, la lezione fu ben appresa da Tony Blair, che riconfigurò il 
		laburismo inglese secondo modelli più consoni all’economia di mercato, 
		con ottimi risultati. Resta l’esperienza bella e romantica del kibbutz 
		in Israele, un’esperienza di socialismo realizzato su piccola scala che 
		dovette necessariamente cedere il passo ad un’economia più strutturata e 
		dinamica: quella capitalistica.
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