Lo spirito del capitalismo
di Vittorio Mathieu

Ideazione di marzo-aprile 2006

Milton Friedman, una biografia intellettuale
Antonio Martino
Rubbettino, Soveria Mannelli;
Leonardo Facco, Treviglio, 2005
pp. 198, € 13

Cattolicesimo, protestantesimo e capitalismo
Paolo Zanotto
Rubbettino, Soveria Mannelli;
Leonardo Facco, Treviglio, 2005
pp. 286, € 10


Due volumi vedono la luce nell’ottobre del 2005, per conto dell’Istituto Bruno Leoni. Quello di Martino è una ristampa (prima edizione presso Giunti), ma la sua attualità è talmente legata alla figura di Bruno Leoni (economista liberale ucciso misteriosamente nel pieno della sua attività: 1967), che la collezione dell’Istituto non potrebbe farne a meno. Al tempo stesso i due volumi sono talmente diversi tra loro da fornire la miglior prova dell’apertura liberale dell’Istituto.
Tema comune ai due scritti la storia del capitalismo, vista però da due punti che più lontani di così non potrebbero essere. Antonio Martino, scolaro del Friedman, è un liberale a tutto campo; Paolo Zanotto è un dichiarato seguace del fondatore dell’Opus Dei, Josemarìa Escrivà de Balaguer. Il suo scritto contribuisce a liberare la storia del capitalismo dall’ipoteca weberiana, secondo cui alla radice del capitalismo si troverebbe l’etica protestante calvinistica. In verità la tesi di Max Weber era già stata ampiamente confutata. A Londra la strada dei banchieri è detta Lombard Street, e i banchieri lombardi del basso medioevo non erano calvinisti. Come già fatto notare da altri e come ricorda il capitolo 30, il calvinismo favorì il capitalismo dell’Ottocento perché si era svuotato del suo integralismo religioso: era diventato un protestantesimo liberale, in realtà secolarizzato. Il cattolicesimo liberale ne subì a sua volta il fascino, e la sua tentazione feuerbachiana culminò in alcune correnti teologiche (oggi in declino) parallele al Vaticano II. Zanotto è molto severo col protestantesimo in generale, che connette con il totalitarismo del Novecento. Non distingue abbastanza, però, tra Lutero (fautore dell’assolutismo) e Calvino che, attraverso Rousseau e Robespierre, promosse il Terrore, cioè l’ala “buonista” e antilluministica della rivoluzione. Questo perché non seleziona abbastanza le sue numerosissime fonti. Accanto ad alcune ottime ne utilizza altre di second’ordine. Concentrarsi di più sull’etica politica di Monsignor Escrivà gli avrebbe giovato.
La santificazione per mezzo del lavoro, praticata nell’Opus Dei, porta a un risultato analogo a quello del neoliberalismo: liberare la ricchezza dalla preclusione anticrematistica fondata su una interpretazione unilaterale delle Sacre Scritture. Il pregio dell’Opus Dei è ammettere la ricchezza, non come scopo e neppure come segno di predestinazione positiva, bensì come effetto secondario del proposito di lavorare bene a tutti i livelli: manuale, intellettuale, finanziario. Ho conosciuto da vicino l’Opus Dei, avendo avuto un suo aderente come assistente, e ne sono ammiratore, salvo che per il culto della personalità tributato in eccesso al Fondatore. Così ho ammirato la capacità di un giardiniere di essere un bravo giardiniere per essere un buon cristiano e lo stesso ho ammirato in un medico, in un giurista, in molti professori.
Sulla povertà dei primi cristiani converrebbe ricordare la distinzione tra cristiani itineranti e stanziali: quelli potevano vivere di elemosina perché questi producevano lavorando. Sulla stessa linea la risposta di Sant’Agostino a una proprietaria terriera, che gli domandava se dovesse distribuire le sue terre ai poveri. La risposta fu: non le terre, ma i frutti; i poveri non saprebbero farle rendere e andrebbe perduto l’oggetto da donare. In ogni caso il libro di Zanotto contribuisce a mostrare che il lavoro produttivo, non solo non contrasta, ma corrobora quella “solidarietà” che oggi è divenuta il luogo comune di una destra ipocrita e di una sinistra risentita.
Inversa, e perciò concorrente, la confutazione in Martino della tesi secondo cui il liberismo economico sarebbe il pupillo dell’alta finanza. Imprenditori e finanzieri sono spesso liberisti a parole, ma protezionisti appena pensino ai loro interessi (esempio tipico: l’Alitalia). Questa era la posizione di Milton Friedman, controrivoluzionario rispetto ai sofismi di Lord Keynes, che era il vero conservatore della borghese società vittoriana. Martino, al contrario di Zanotto, non pensa alla santificazione mediante il lavoro, ma pensa alla condizione per rendere il lavoro produttivo e liberare le forze dell’uomo per quegli scopi che ciascuno liberamente si propone. Se adottassimo un calendario liberista come Comte proponeva un calendario positivista, converrebbe dedicare un giorno a San Friedman come Comte ne dedicava uno a San Socrate. Quando, però, ci si restringa alla scienza, conviene piuttosto ricordare la riserva che muovevo alla teoria monetaristica in Filosofia del denaro (1985): essa dipende, al pari del keynesianesimo, dalla (pseudo)equazione degli scambi del Marshall. La sua origine è la fallacia naturalistica di scambiare il denaro per una grandezza fisica, mentre il denaro è piuttosto il negativo fotografico della ricchezza reale. L’uso della ricchezza richiede l’appropriarsene, l’uso del denaro il darlo via.
Se si potesse parlare di massa monetaria, questa agirebbe in modo analogo a una massa fisica, ad esempio di acqua; ma non si può, perché la massa agisce tutta insieme – appunto “in massa” – mentre l’azione complessiva della moneta aggregata è guidata dalle innumerevoli volontà indipendenti e sconnesse degli operatori.
Le dottrine che discendono dal Marshall cercano di rimediare all’equivoco con “aggregazioni” (“domanda aggregata” eccetera). Ma le aggregazioni sono macroeconomiche e la macroeconomia presuppone la micro. Ne parlammo con Martino alla luiss (cfr. A. Martino, “Micro e macroeconomia in Mathieu”, in Responsabilità del sapere, 1986, pp. 75-78). Friedman diffida bensì delle aggregazioni (che altrove ho chiamate “orgiastiche”) e contribuisce a demolire l’ossimoro keynesiano del tesaurizzatore, che accumulerebbe moneta perché gli conviene – in vista di un abbassarsi dei prezzi – e perché commette un errore teorico: motivi che si escludono a vicenda; ma non sfugge alla fallacia naturalistica quando tratta la quantità di moneta come una grandezza fisica, dicendo che «mutamenti nella quantità di moneta generano mutamenti proporzionali nel livello dei prezzi». In un convegno della Mont Pelerin Society a Saint Vincent (1988) ebbi occasione di constatare che il cordone ombelicale che lega Friedman e Keynes a Marshall era notato da molti. Per occultare la sua vera origine il monetarismo si dichiara figlio della “Scuola di Chicago”. Ma Don Patinkin (Journal of Money, 1969, pp. 46-70) ha documentato che la reale scuola di Chicago si era occupata di tutt’altro. Don Patinkin era senza dubbio un maligno: ma la malignità si addice agli economisti. Forse però fu quella la ragione per cui, per quel che so, non fu insignito del premio Nobel. Una storia dei grandi a cui il premio Nobel non fu dato sarebbe interessante: a cominciare dal padre della chimica teorica, Dmitrij Mendeleev e a proseguire con J. L. Borges.

(c) Ideazione.com (2006)
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