La
normalità americana
di Antonio Donno
Ideazione
di gennaio-febbraio 2006
L’eccezione americana.
La politica estera statunitense dall’Indipendenza alla guerra in
Iraq
Giuseppe Mammarella
Carocci,
Roma, 2005
pp. 259, € 20,30
Una
storia complessiva della politica estera degli Stati Uniti è un’opera
ambiziosa quanto preziosa. Il libro di Mammarella colma un’esigenza
da molto tempo avvertita, anche se la storiografia italiana ha fornito
nel corso degli anni studi approfonditi su particolari aspetti della vicenda
internazionale del paese nord-americano. Tuttavia, un momento di sintesi
era indispensabile. Mammarella salda la narrazione degli eventi della
politica estera statunitense con il riferimento ai principali contributi
storiografici americani, fornendo così un quadro tendenzialmente
completo di storia e storiografia.
Entrando nel merito del libro, si nota però un certo squilibrio
tra la narrazione dei fatti sino alla seconda guerra mondiale e quella
successiva sino ai nostri giorni. Poiché le relazioni internazionali
degli Stati Uniti sono divenute assolutamente centrali nella storia del
mondo dopo il secondo conflitto, costituendo il punto di riferimento imprescindibile
per comprendere l’assetto del sistema politico internazionale da
ogni punto di vista, sarebbe stato necessario approfondire adeguatamente
questa seconda parte dando più spazio ai molteplici aspetti del
bipolarismo che ha segnato tutta la seconda metà del XX secolo
sino alla caduta del muro di Berlino ed al dissolvimento dell’Unione
Sovietica. Eppure, giustamente Mammarella fa riferimento al XX secolo
come secolo americano.
Inoltre, non convince l’uso dell’espressione eccezione americana
come titolo del libro. In realtà, Mammarella non rileva, in tutta
la sua narrazione, alcuna eccezione nello sviluppo storico degli Stati
Uniti come grande potenza mondiale; anzi, in un passaggio l’autore
sottolinea giustamente come tutte le grandi potenze, nella storia umana,
abbiano teso ad irradiare i propri valori al resto dell’umanità.
Nulla di eccezionale, dunque. Per di più, l’uso del termine
impero per designare l’egemonia americana è del tutto improprio
e spesso fuorviante. Il problema è che decenni di anti-americanismo
hanno imposto l’uso di questo termine come condanna dell’egemonia
americana. Non è naturalmente il caso di Mammarella, anche se egli
talvolta indulge a quest’uso. Gli Stati Uniti non sono stati mai
un impero, né nel senso classico del termine né come conseguenza
della sua egemonia globale nel secondo dopoguerra, che rientra in un altro
campo di analisi.
Del resto, l’analisi assai puntuale, operata da Mammarella, della
concezione del manifest destiny, che tenne banco negli Stati Uniti per
tutto l’Ottocento, sgombra il campo da ogni equivoco. L’autore
ne dà un’interpretazione storica, non ideologica, come spesso
avviene (si veda lo studio di Anders Stephanson, recentemente tradotto
in Italia). Dare un’interpretazione storica del manifest destiny
significa analizzare, come appunto fa Mammarella, la dinamica delle forze
sociali e dell’economia americane che produssero quella formidabile
espansione territoriale continentale che era implicita nel processo di
colonizzazione bianca, anglo-sassone e protestante. La proiezione del
manifest destiny oltre i confini territoriali degli Stati Uniti, vagheggiata
da molti pubblicisti americani negli ultimi decenni dell’Ottocento,
aveva un carattere ideologico, come tendenza ad esportare i valori americani
considerati il punto più alto raggiunto dalla civiltà umana,
ma anche come processo economico. L’“impero” non c’entra
affatto. La stessa partecipazione all’ultimo momento degli Stati
Uniti alla Grande Guerra ed il successivo aspro dibattito che portò
il paese a disinteressarsi parzialmente degli affari europei confermano
la tradizionale reticenza americana ad invischiarsi politicamente nelle
questioni internazionali. Almeno sino alla seconda guerra mondiale. Mammarella
chiarisce opportunamente questo punto. Forse, proprio a questo proposito,
occorrerebbe utilizzare l’espressione eccezione americana, per quanto
l’autore concluda il suo libro affermando, troppo ottimisticamente,
che il legame Europa-Stati Uniti «si è confermato per più
di due secoli come l’asse portante delle vicende mondiali».
(c)
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