Gli ungheresi da Maometto all'Urss
di Alberto Indelicato

Ideazione di marzo-aprile 2007

  

The Hungarians
Paul Lendvai
Princeton University Press, Princeton, 2006
pp. 608, € 24,95


 

Nel 1456 gli ottomani di Maometto II furono battuti a Belgrado dall’esercito numericamente inferiore di János Hunyadi. Grazie agli ungheresi e all’entusiasmo suscitato in loro dagli infuocati sermoni del frate francescano Giovanni da Capestrano, fu scongiurata per settant’anni la minaccia d’islamizzazione dell’Europa. Essa, però, si sarebbe ripresentata in seguito più volte e solo nel 1683 a Vienna, assediata da Maometto IV, le forze cristiane conseguirono una vittoria definitiva, alla quale contribuì potentemente con la sua parola incitatrice un altro religioso: il cappuccino Marco d’Aviano. A Vienna, accanto al monumento a lui dedicato davanti la cripta dei cappuccini, vi sono le tombe degli Asburgo. Su quella di Elisabetta non mancano mai dei fiori legati con un nastrino rosso bianco e verde, i colori della bandiera ungherese. Per ogni turista magiaro è quasi un dovere visitare i resti dell’inquieta moglie di Francesco Giuseppe, che all’Ungheria fu sempre molto legata. Non si tratta di un’affezione esclusivamente sentimentale; la devozione degli ungheresi ha anche radici patriottiche per colei che svolse un’attività instancabile presso l’imperatore ed i suoi consiglieri per ottenere la riappacificazione tra i sudditi ribelli del 1848-49 e la Corte di Vienna. E fu lei che, dopo il “compromesso” del 1867, continuò ad appoggiare le richieste di quei suoi sudditi di maggiore libertà e maggior peso politico anche a spese delle altre nazionalità della duplice monarchia: romeni, slavi, italiani. A quel periodo Paul Lendvai dedica uno dei capitoli più interessanti del suo nuovo libro Gli ungheresi, che naturalmente ripercorre tutte le fasi della storia di quel popolo, giunto come un orda nemica dall’Asia per stabilirsi nel cuore dell’Europa, dopo incursioni che lo avevano portato sino in Puglia ed in Spagna. Egli mostra attraverso quali vicende i magiari, confusi con gli Unni e come tali temuti, diventarono difensori della cristianità contro mongoli e turchi e principalmente appassionatamente europei. Vicende spesso tragiche che li hanno visti, loro non indoeuropei, di volta in volta oppressori e vittime dei vicini latini, slavi e germanici.

Ovviamente il lettore dei nostri giorni sarà particolarmente interessato alla narrazione degli eventi dell’ultimo secolo ed, in particolare, del periodo dell’oppressione comunista e sovietica. Non sarà deluso. Quanto agli anni Venti e Trenta del Ventesimo secolo, vi spiccano tre figure diversissime: quella di Mihály Károly, il Conte rosso, che volle recitare la parte di un Kerenski, quella di Béla Kun, che si illuse di essere un secondo Lenin e che finì “giustiziato” da Stalin, e quella di Miklós Horthy, ammiraglio senza flotta e reggente di un regno senza dinastia. Anche quando tratta del periodo comunista, Lendvai, che fu egli stesso vittima del regime instaurato dall’Armata Rossa, riesce a fare un’esposizione sine ira et studio del regime e a tracciare ritratti equanimi di coloro che ne furono artefici, beneficiari e vittime (a volte tutte e tre le cose assieme). Ma la natura di quel regime appare chiaramente non soltanto dalle persecuzioni che esso inflisse al suo popolo e dal servilismo dei suoi dirigenti nei confronti dell’urss, ma anche da episodi minori come quello degli inesistenti amici russi degli insorti ungheresi del 1848-49. Per dimostrare che quella repressione compiuta per conto degli austriaci sarebbe stata voluta soltanto dallo zar Nicola II e non dal popolo russo, lo scrittore stalinista Béla Illes rivelò nel 1945 di aver trovato a Minsk dei documenti da cui sarebbe risultato che dei soldati russi si sarebbero schierati con gli insorti ungheresi. Una lapide fu apposta ed una strada intitolata ad uno di quei coraggiosi che sarebbero stati, secondo lo scrittore-archivista, giustiziati per il loro gesto di amicizia nei confronti dell’Ungheria e della sua libertà. Una storia grottesca, inventata di sana pianta e smentita non solo dal fatto che i documenti erano inesistenti, ma anche dalla successiva repressione, questa volta sovietica, del 1956. Un aneddoto che però dimostra come anche nelle piccole cose la menzogna fosse connaturata al regime ed all’ideologia che ne era alla base.

Quella di Lendvai, profondo conoscitore dell’Europa Centrale, è una storia accurata che meriterebbe di essere conosciuta anche dai lettori italiani.

 

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