Quanto costa il diritto nel sistema internazionale?
di Mauro Gilli

Ideazione di maggio-giugno 200 6

The Limits of International Law
Jack L. Goldsmith, Eric A. Posner

Oxford University Press, 2005
pp. 272, € 29,95

La terza guerra del Golfo, quella contro l’Iraq del 2003, ci ha abituato ad un dibattito sulla “legalità internazionale” che neanche la guerra in Kosovo era riuscita ad imporre. Una guerra, quella del 1999, particolarmente importante perché segnò, come ha sottolineato il sociologo tedesco Ulrich Beck, il superamento della concezione per cui il diritto internazionale ha precedenza sul rispetto dei diritti umani (La società cosmopolita, il Mulino, Bologna 2003). Con la guerra in Iraq, come detto, il concetto di legalità internazionale ha ottenuto nuova e rinnovata attenzione, anche se, nel fuoco incrociato delle polemiche, la materia del contendere è spesso apparsa avvolta da ambiguità. Dalle ceneri di queste polemiche, il politologo americano Robert Kagan fece uscire un saggio intitolato Il diritto di fare la guerra (Mondadori, Milano 2004) nel quale metteva in evidenza l’incoerenza di quanti, dal segretario delle Nazioni Unite Kofi Annan all’ex ministro degli Esteri tedesco Joshka Fischer salutarono le operazioni della nato in Serbia (che, ricordiamolo, non avevano ottenuto alcun sostegno dalle Nazioni Unite) come una “evoluzione” del diritto internazionale, mentre nel 2003 criticarono “l’illegalità” della guerra in Iraq, giustificando in tal modo la loro opposizione a questo intervento militare.
Tutte queste polemiche hanno posto dei dubbi ai più attenti osservatori: è il diritto internazionale a determinare il comportamento degli Stati, oppure sono gli Stati, sulla base dei loro interessi e delle posizioni di forza, a determinare il diritto? E infine, gli Stati hanno un dovere morale a seguire le prescrizioni del diritto internazionali, oppure no? Jack L. Goldsmith ed Eric A. Posner (professori di Legge rispettivamente ad Harvard e all’Università di Chicago) hanno provato a rispondere a queste e altre domande in un libro dall’eloquente titolo The Limits of International Law, che ha il grande pregio di considerare due elementi del sistema politico internazionale che generalmente vengono trascurati dai testi di diritto: i rapporti di forza tra gli Stati e i loro interessi nazionali. Partendo dal presupposto che gli Stati perseguono i loro interessi, attraverso l’uso dei modelli teorici della rational choice, i due autori analizzano il comportamento degli Stati rispetto ai vincoli imposti dal diritto internazionale. Le conclusioni alle quali giungono sono molto semplici: gli Stati seguono le prescrizioni del diritto internazionale solo quando trovano un vantaggio diretto nel farlo. In caso contrario, non esitano a violarle. Il diritto internazionale assume, dunque, la funzione di uno strumento per risolvere i problemi di cooperazione tra gli Stati: illuminanti sono gli esempi delle conferenze multilaterali per gli accordi commerciali (Doha round, eccetera.), o degli accordi di disarmo nucleare tra Russia e Stati Uniti (2002). Secondo Goldsmith e Posner, questi accordi avrebbero infatti una funzione puramente informativa, volta a risolvere appunto il problema dell’informazione asimmetrica che rende difficile la cooperazione a livello internazionale.
Ma il grande merito di questo testo è quello di spiegare ad un pubblico non accademico il diritto internazionale. La chiave di lettura realista permette di uscire – come sottolineano i due autori nell’introduzione – dalla logica idealistica e puramente accademica del diritto internazionale e di capire realmente le relazioni tra Stati quando vengono regolamentate dal diritto. Che, quindi, smette di rappresentare un totem da salvaguardare, ma diventa uno strumento di cooperazione nei rapporti tra gli Stati.
Particolarmente interessante è l’ultima sezione del libro (la terza: Rhetoric, Morality and International Law) che spiega in modo molto preciso la logica del diritto internazionale: nel sesto capitolo (A Theory of International Rhetoric) i due studiosi sottolineano, riprendendo così l’insegnamento di Hans Morgenthau, come gli Stati facciano spesso ricorso al diritto internazionale – e, nel caso, alla morale, all’etica, o a principi altisonanti – per giustificare le loro azioni. Nel settimo (International Law and Moral Obligation), negano l’esistenza di un obbligo morale per gli Stati a seguire le prescrizioni del diritto internazionale in quanto, sottolineano, è il mero “calcolo strumentale” a suggerire loro il comportamento da tenere, indipendentemente dal fatto che sia in conformità o meno con il diritto. Mentre nell’ottavo capitolo (Liberal Democracy and Cosmopolitan Duty) viene presentata una critica molto ben argomentata ai presunti obblighi cosmopoliti delle democrazie occidentali: dalla sottoscrizione del trattato di Kyoto a quella del Tribunale penale internazionale.
Qualche giurista internazionale, magari seguace di Kelsen, potrebbe sentirsi irritato da queste tesi. Come anche qualche istituzionalista liberale. La chiave di lettura del libro sembra però risultare più che efficace nello spiegare la relazione tra il diritto e il comportamento degli Stati: i due autori non arrivano certo ad appoggiare l’affermazione di John Bolton, attuale ambasciatore americano all’onu, per il quale «il diritto internazionale non esiste», ma certamente ridimensionano l’importanza che viene ad esso generalmente attribuita.


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