L'illusione del paese-museo
di Domenico Naso

Ideazione di gennaio-febbraio 2007

  La Sindrome di Meucci
   Giuliano da Empoli
      Marsilio, Venezia, 2006
    pp. 79, € 7,50
 


Strano libro quello di Giuliano da Empoli dedicato al declino economico italiano. Strano perché da un lato il giovane autore del riformismo italiano riesce a colpire nel segno quando parla di propensione alla «sindrome da declino», quando sottolinea ciò che non va e ciò che andrebbe fatto meglio all’interno del Sistema Italia. Dall’altro lato, però, le ricette suggerite sembrano tutt’altro che innovatrici, il contrario di quel dinamismo proiettato verso il futuro che proprio da Empoli indica quale atteggiamento necessario alla risalita.

Ne La sindrome di Meucci, infatti, assistiamo perplessi all’elogio dell’Italia da cartolina, all’Italia da That’s Amore tutta pizza, sole e mandolino. Secondo Giuliano da Empoli non dovremmo tentare di stare al passo con le altre nazioni del mondo in campi ormai nevralgici come quello tecnologico o della ricerca scientifica. Il perché è presto detto: abbiamo i monumenti? Abbiamo il sole? Abbiamo il mare? E che altro andiamo cercando, allora? Accontentiamoci di questo e valorizziamolo, trasformiamoci in un museo a cielo aperto, dedichiamoci al turismo e alla conservazione dei beni ambientali e culturali e usiamoli per risalire la china. Da Empoli definisce la conservazione il core business italiano, con il nostro paese declassato a semplice puerto seguro dove le grandi menti dell’innovazione tecnologica mondiale possono venire a ritemprarsi per due settimane l’anno. È francamente desolante notare come una delle menti più brillanti della nuova generazione italiana si faccia prendere la mano dall’amarcord da commedia all’italiana anni Cinquanta, con la differenza (fondamentale) che non siamo più «poveri ma belli» e che Marisa Allasio ha nel frattempo sposato addirittura un discendente di casa Savoia.

«Nella nuova divisione internazionale del lavoro, l’Italia deve essere, ancor più che in passato, il sogno a occhi aperti del turista di fascia alta; la sua funzione è quella di offrire una tregua ai padroni del vapore, non quella di produrre qualcosa, a meno che non sia strettamente correlato a questa dimensione ludica. Anzi, è necessario che qui non si produca proprio nulla di nuovo, altrimenti si correrebbe il rischio di spezzare l’incantesimo, di turbare l’idillio della coppia di Singapore che è riuscita a ritagliarsi un intero pomeriggio, in una vita dedita al lavoro, per passeggiare senza meta tra via Tornabuoni e piazza della Signoria».

Dopo un brano del genere, il lettore si affanna a concludere ancora più velocemente l’agile libello di da Empoli, nella speranza che si tratti di una provocazione e che, prima o poi, l’autore lo sveli. Macché, tutt’altro. Le speranze dell’illuso lettore che vorrebbe un’Italia più innovativa tecnologicamente e industrialmente vengono ben presto stroncate dalle seguente sentenza: «Non è creativo, il futuro naturale dell’Italia, quanto piuttosto ricreativo». Con buona pace di chi tenta di rilanciare l’economia nostrana puntando sull’innovazione tecnologica. Su un punto da Empoli riesce a cogliere nel segno: la noiosità esasperante delle città italiane. Dopo le otto di sera si svuotano, si spengono, si assopiscono fino al mattino successivo. Verissimo, Roma e Milano non sono Barcellona, New York o Londra e la “classe creativa” preferisce, appunto, vivere altrove.

Da Empoli aggiunge che «la vera sfida, oggi, non è di abbellire le città, bensì quella di creare le condizioni perché esse si trasformino in ambienti stimolanti». Più che giusto. Ma la questione, a questo punto, diventa un’altra: perché la classe creativa di cui parla da Empoli dovrebbe vivere in Italia se vogliamo trasformare il nostro paese (come lui stesso suggerisce) in un enorme beauty farm bucolica a cielo aperto in cui ospitare gli stressati e stanchi businessmen di tutto il mondo?

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