I colossi d'Asia sfidano l'Europa
di Alessandro Marrone

Ideazione di novembre-dicembre 2006

   L'impero di Cindia
   Federico Rampini
     Milano, Mondadori, 2006
  pp. 396, € 15

Stupore, orgoglio e timore. Il libro L’impero di Cindia di Federico Rampini suscita soprattutto questi tre sentimenti. Lo stupore è dovuto al susseguirsi di storie personali e dati statistici, ben alternati dall’autore, che raffigurano plasticamente come Cina e India vivano un boom economico di dimensioni colossali: 2,4 miliardi di abitanti vivono nelle due nazioni che dal 2004 sono la prima e la terza destinazione degli investimenti stranieri mondiali.

In India si possono individuare almeno due chiavi della crescita economica. La prima è una predisposizione culturale secondo Rampini ben diversa dallo stereotipo dell’indiano lento, servile e prigioniero del sistema delle caste: Mark Twain diceva che l’India «è madre di mille religioni e duemila dei», e in questo pluralismo di fedi è venerata anche la dea Lakshmi che esalta la ricerca del benessere materiale. Vi è forse un parallelismo con l’etica protestante e lo spirito del capitalismo? Di certo anche l’antica cultura del sanscrito e della matematica è stata la base su cui si è costruita la Silicon Valley di Bangalore, dove la Microsoft recluta migliaia di tecnici informatici. La seconda chiave è l’istruzione. In India l’alfabetizzazione ha raggiunto il 66 per cento della popolazione, 800 milioni di persone, e questo colossale investimento ha puntato sia alla scolarizzazione di base sia a quella di eccellenza in tutto il paese: il National Institute of International Technology ha 1.750 scuole di alta formazione informatica, e sta diventando il leader mondiale nel campo. Queste due condizioni hanno spinto uno sviluppo economico e un cambiamento sociale di cui colpiscono tanto le vette quanto la base. L’autore ci ricorda che il terzo uomo più ricco del mondo è un indiano di nome Lakshmi, come la dea, che ha costruito dal nulla il più grande impero siderurgico mondiale e nel 2006 ha lanciato un’Opa sul numero uno dell’acciaio europeo, l’Arcelor. Mentre la casa automobilistica Tata, con cui la Fiat ha stipulato un accordo nel 2005, vale in borsa più della General Motors.

Il boom della Cina suscita altrettanto stupore. Paese comunista e quindi povero fino a vent’anni fa, nel 2005 costituiva un mercato da 560 miliardi di dollari l’anno che ha attirato 500.000 industrie straniere, ed entro 15 anni prevede di quadruplicare il proprio pil. Come nota Rampini, oggi la Cina è per molti versi un modello di sviluppo opposto a quello indiano: l’industrializzazione e l’urbanizzazione sono gestite dall’alto e dal centro dell’apparato statale, con metodi autoritari ben diversi dalla democrazia indiana. Anche a livello sociale la “socialdemocrazia” indiana garantisce di più i suoi lavoratori, mentre la Cina “comunista” ne fa carne da macello sia nel nuovo sistema industriale iperliberista sia nelle industrie di Stato: tutte le opere pubbliche per le Olimpiadi di Pechino 2008 sono già quasi pronte, caso unico nella storia moderna, ma non si sa a prezzo di quali sacrifici da parte dei lavoratori cinesi.

Anche in questo caso il retaggio culturale ha il suo peso: un popolo educato ai valori di gerarchia e obbedienza, e abituato ai mandarini prima e al partito-Stato poi, di certo è più predisposto a essere il piccolo obbediente ingranaggio di un gigantesco sistema-paese che gira a ritmi vertiginosi sotto la guida del governo. Dopo il boom dell’export che ha indotto usa e ue a reintrodurre limiti all’importazione del tessile made in China, Pechino con le sue imprese comincia a comprare multinazionali occidentali: l’anno scorso l’ibm ha venduto la sua divisione personal computer alla Lenovo di Shangai.

Dopo lo stupore, nel lettore che ha coscienza di quello che è stato l’Occidente, subentra l’orgoglio. Sia perché è evidente la positiva eredità della colonizzazione e della mentalità inglese nella via indiana alla modernità: inserimento a pieno titolo nel mondo accademico ed economico anglosassone, attenzione al progresso scientifico e tecnologico, pragmatismo, equilibrio tra tradizione e innovazione, composizione democratica degli interessi sociali, etnici e religiosi. Sia soprattutto perché India e Cina sono l’ennesima e più eclatante prova che solo il mercato è in grado di creare ricchezza diffusa e libera mobilità sociale.

La globalizzazione, lungi dall’essere lo sfruttamento del terzo mondo propagandato da certa sinistra, è stato il mezzo con cui centinaia di milioni di persone sono uscite dalla miseria entrando nel circuito di produzione e consumo mondiale. E ciò è tanto più vero nella Cina che col comunismo di Mao ha visto morire di fame milioni di suoi contadini, e con le liberalizzazioni di Deng ha visto la vita media allungarsi come mai prima.

Ma, dopo l’orgoglio, è infine il timore la sensazione che resta terminato il libro. Infatti non si può rimanere indifferenti leggendo come e perché l’Europa in cui viviamo e vivremo diventa sempre più marginale e dipendente, dal punto di vista prima economico e subito dopo politico dall’Asia. Rampini descrive con ammirazione l’ascesa dell’Oriente e l’inizio del secolo di Cina e India, e racconta quasi con piacere le processioni di imprenditori e governanti occidentali a Pechino per implorare di rivalutare lo yuan, frenare l’export, o impiantare filiali delle multinazionali cinesi in Occidente. Ma bisognerebbe piuttosto preoccuparsi di questo trend, anche considerando ad esempio che il surDaily nella bilancia commerciale ha permesso alla Banca Centrale Cinese di accumulare mille miliardi di dollari e una quota significativa di Buoni del tesoro americani: i leader mondiali oggi sanno che alla Cina basta vendere i suoi bond e dollari per scatenare una crisi finanziaria peggiore di quella del Ventinove, e questa è in pratica una pistola puntata alla tempia di ogni governo occidentale.

(c) Ideazione.com (2006)
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