A cosa serve la diplomazia?
di Andrea Gilli

Ideazione di settembre-ottobre 2006

Deterrence by Diplomacy
Anne E. Sartori

Princeton University Press, Princeton, NJ, 2005
pp. 176, $ 32,50

I diplomatici sono stimati, ben remunerati e soprattutto sono invidiati. Essi godono di numerosi privilegi, svolgono una professione nobile, sicuramente interessante e da sempre molto ambita. Ciononostante, una domanda resta inevasa: la diplomazia serve a qualcosa? Per quanto cruda e diretta, questa domanda è particolarmente perspicace specialmente alla luce dei costi della diplomazia e della spesso dubbia efficacia dell’azione diplomatica di uno Stato.
Anne E. Sartori, giovane docente di Scienza Politica all’Università di Princeton (NJ), ha cercato con questo suo breve scritto di dare una risposta al presente quesito. Fin dall’introduzione, l’autrice rileva innanzitutto come, sebbene la diplomazia sia una pratica oramai affermata da diversi secoli (essa nacque nel Rinascimento), gli studiosi di Relazioni internazionali la abbiano sempre considerata una sorta di semplice paravento, nel migliore dei casi, tanto da non dedicarle, se non raramente, spazio alcuno sia nei loro modelli interpretativi che nella letteratura.
Le ragioni sono molteplici. Su tutte spicca il rilievo che la dottrina ha storicamente dato ad un altro fattore: la bruta forza militare. Se, infatti, per spiegare le cause dello scoppio dei conflitti armati, si tiene in preponderante considerazione la variabile militare, allora la diplomazia assume un peso assai poco rilevante. Essa diventa una sorta di arredamento necessario per motivi di forma ma assolutamente ininfluente nella sostanza. Da quanto emerge dallo studio dei Sartori, però, la realtà è ben diversa. La diplomazia conta e non poco, soprattutto nel determinare lo scoppio delle guerre.
L’autrice, studiando i dati del cow (Correlates on War Project dell’Università del Michigan: la più grande banca dati sulle questioni belliche al mondo), ha infatti notato un particolare non certo secondario: l’onestà premia. L’autrice ha cioè rilevato come, storicamente, l’onestà degli Stati nel riferire, attraverso la diplomazia, le proprie intenzioni abbia portato ad una limitazione degli scontri armati. Prendendo come esempio cardinale la guerra di Corea, Sartori ha verificato un elemento assolutamente non di second’ordine: la volontà degli Stati Uniti di andare in guerra derivò dalla presunzione che la Cina stesse bluffando, come aveva fatto pochi anni prima nei confronti di Taiwan.
Studiando quindi tutte le diadi disponibili, Sartori ha verificato come l’onestà, nelle relazioni diplomatiche, premi. Ovvero che facendo seguire dei fatti alle proprie parole si ottiene una credibilità poi utile in futuro, in quanto fonte di deterrenza nei confronti dei propri nemici. Sottolineando come talvolta, comunque, anche questa spiegazione possa non essere adeguata per giustificare la nascita di alcuni conflitti armati, Sartori nota come dall’altra parte la Reputation by Resolve, di cui aveva parlato uno dei maestri delle Relazioni Internazionali, Robert Jervis della Columbia University di New York, abbia in realtà un ruolo molto più marginale di quanto si possa pensare.
Detto in altri termini, essere “risoluti” (per esempio minacciare di essere disposti a subire qualunque costo pur di evitare la perdita di un determinato territorio) non dissuaderebbe necessariamente un avversario. Essere “onesti”, invece, storicamente e statisticamente sembrerebbe premiare in maniera significativamente maggiore. Per evitare il conflitto di domani, conviene essere onesti oggi, rivelare cioè le proprie reali intenzioni. Così che i propri nemici sappiano che quello Stato non bluffa. Minacciando l’uso indiscriminato della forza armata, invece, si rischierebbe di fare il contrario, specialmente se quella forza, alla fine, non verrà usata.
Non si pensi di avere di fronte un libro che ripercorre la storia diplomatica dell’ultimo secolo. Il testo si presenta come un minuto volume pieno di equazioni e modelli statistici che servono appunto per arrivare alla conferma dell’ipotesi di base (ricavata mediante la costruzione di equilibri bayesiani perfetti). Ciò non toglie, però, la portata innovativa del testo che sostanzialmente dà un solo consiglio: quello di essere onesti nelle relazioni diplomatiche.
Resta però un problema: finché il costo della “disonestà” sarà pagato da un politico diverso da quello che ha deciso la linea disonesta, risulta difficile pensare che si possa dare un’applicazione concreta a questo suggerimento di policy. A meno che i diplomatici non si impongano per diventare una sorta di authority delle relazioni internazionali e far così valere la linea dell’onestà.

(c) Ideazione.com (2006)
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