Il
problema principale è dare all’Unione Europea gli strumenti per
superare l’impasse e governare una comunità di ventisette Stati
membri. Gli strumenti sono i meccanismi di voto. Infiocchettati con
un po’ di retorica, tre anni fa se n’è tirata fuori la Costituzione
europea. Ma se la retorica eccede gli strumenti, i cittadini se ne
accorgono e, se non sono neppure tempi floridi, approfittano di un
referendum per mandare tutto a gambe all’aria. E’ accaduto in
Francia e in Olanda, e sarebbe potuto accadere in Gran Bretagna e in
Polonia, se il “fermi tutti” non avesse arrestato l’ondata. Due anni
dopo, la macchina europea s’è rimessa in moto. Dopo alcuni semestri
di basso profilo, la presidenza tedesca ha deciso di rimettere la
questione della cornice istituzionale al centro del dibattito.
La
retorica è stata sfrondata. Relegata alle manifestazioni
pubbliche in occasione del cinquantenario dei Trattati di
Roma. Tutti a Berlino, sotto il sole di marzo, capi di Stato
e di governo dei paesi vecchi e nuovi, per una bella foto
comune. Discorsi commoventi sul passato e sul presente. Il
futuro è stato occasione di scontro nei vertici a porte
chiuse. Cinquant’anni di crescita economica e sociale,
cinquant’anni di integrazione: su questo un po’ di retorica
e di orgoglio, in fondo, non guasta. Ma il futuro è roba da
litigio, da scontro, da interessi particolari sovrapposti a
quelli generali e buttati senza troppi scrupoli sul tavolo
delle trattative.
Ora
siamo alla stretta finale. Dimagrita nella pomposità, la
Costituzione è stata degradata a Trattato. Ha perso di
status ma può guadagnare di efficacia. Angela Merkel è
decisa a strappare l’accordo definitivo nel vertice di fine
giugno che chiuderà un semestre tutto giocato a riaffermare
il ruolo tedesco di motore del Continente nel dialogo con i
partner europei. La diplomazia dell’Auswärtiges
Amt, il ministero degli Esteri di Berlino, lavora senza
sosta da mesi, compattando gli alleati, adulando i dubbiosi,
rinfrancando i contrari. Oggi l’Unione può essere
paralizzata dal veto di qualunque paese, piccolo o grande
che sia. Bisogna trovare un compromesso che garantisca i
diritti dei piccoli senza bloccare le iniziative di tutti.
Compromesso: è la parola magica che muove l’Europa. Non
piace ai falchi che tagliano il mondo con l’accetta ma tiene
insieme il più riuscito esperimento di esportazione della
democrazia che abbiamo conosciuto.
Compromesso è la parola che deve risuonare in queste ore a
Varsavia. L’affrancamento della Polonia dal comunismo e
dall’orbita sovietica (e russa) è avvenuta anche perché,
all’orizzonte di Solidarnosc c’era quel progetto di libertà
e democrazia che ha trovato sede nella casa comune europea.
Dietro il gruzzolo di voti che Varsavia vuol conservare
attraverso un complicato meccanismo algebrico, c’è una
malintesa interpretazione dei propri interessi nazionali e
si nascondono le furbizie degli scettici di nuovo conio,
come quelli che abitano nella vicina Praga. Il gemello
premier, Jaroslaw Kaczynski, ha detto di essere pronto a
morire pur di difendere la radice quadrata che consentirebbe
alla Polonia di contare di più. E ha minacciato il veto del
suo paese nel vertice di giugno. Una dichiarazione roboante
e drammatica, uno stile che mette in imbarazzo prima di
tutto il suo stesso paese che in questi anni ha saputo
cogliere tutte le opportunità che la svolta politica ed
economica aveva offerto. Ci vuole più Europa anche per i
nuovi paesi dell’Est, oggi in bilico tra i risultati
straordinari di crescita delle economie e delle società e i
pericoli del populismo delle èlite politiche. E l’Europa è
fatta di diritti ma anche e soprattutto di doveri.
(c)
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