Il laboratorio della Nuova Europa
di Pierluigi Mennitti
[22 mag 07]


“Brum, brum: davanti ad Aschinger nell’Alex strepita il battipalo a vapore. E’ alto quanto il piano di una casa e come niente infila i pali per terra. Aria di neve, febbraio. La gente va in giro infagottata. Chi ha una pelliccia la porta, chi non l’ha va senza. Le donne hanno le calze sottili e devono avere freddo, ma sono carine […] Vento ce n’è molto in Alex, all’angolo di Tietz soffia maledettamente. Vento che soffia persino dentro le case e nelle buche della metropolitana. Vien voglia di andare a nascondersi in un’osteria, ma come si fa? Ti soffia anche nelle tasche dei calzoni, belle vuote”.

Il brulichìo descritto nella citazione è quello di Alexanderplatz ai tempi di Alfred Döblin, nella Berlino alla fine degli anni Venti, quella fase che molti storici descrivono come della quiete prima della tempesta. La tempesta sarà l’avvento del nazismo, ma la quiete, a quei tempi, non c’è mai stata. La Berlino degli anni weimariani è stata una città caotica e vitale come poche, piena di gente e di movimento, effervescente sul piano artistico e una pentola in ebollizione su quello sociale. Lustrini e rivoluzione, povertà ed emancipazione, disoccupazione e repressione e, sotto la coperta del grande gioco sociale, la vita di tutti i giorni che i berlinesi consumavano soprattutto nel grande piazzale di Alexanderplatz. Alex per gli amici.

Ci è sembrato naturale scegliere questo luogo d’incontro, storico e geografico, per intitolare la rubrica che state leggendo e che sarà una finestra quotidiana sull’Europa che cambia. Da qui gli orizzonti si spingono verso Oriente, lungo le suggestioni della vecchia carretera sovietica che da Berlino Est si spingeva a Varsavia e poi a Mosca, lungo viali imperiali ricostruiti dopo la guerra per allineare i popoli a un’idea, a un regime, infine a un carcere. La carretera degli inganni. Oggi queste strade raccontano storie nuove, altre, che giungono ad Alexanderplatz assieme agli emigranti attratti dal miraggio della nuova capitale europea. Arrivano e si mescolano, nelle mille lingue che compongono questo incredibile melting pot che riesce a sopravvivere agli scontri di civiltà, di interessi, di abitudini e costumi. Finché durerà, varrà la pena adi raccontarlo.

Ma Alexanderplatz è anche la piazza della delusione, per chi ci arriva oggi con le note di Milva e Battiato nelle orecchie: “Alexanderplatz, auf Wiedersehen, c’era la neve, faccio quattro passi a piedi fino alla frontiera”. Alex non è una piazza bella, ma è molto, molto berlinese. Anche Berlino non è una città bella. E’ affascinante, ma il fascino è sempre nascosto nelle pieghe dei difetti. L’ondata delle ricostruzioni si è fermata a Potsdamerplatz, o sulla Friedrichstrasse e i grattacieli che nei piani degli architetti avrebbero dovuto proiettare Alex nel Ventunesimo secolo sono rimasti schizzi su fogli di carta. Qui, nel Novecento, il popolo ha sempre detto la sua. Negli anni Dieci sbarcava il lunario con mille mestieri. Negli anni Venti giocava alla rivoluzione rossa. Negli anni Trenta fabbricava le barzellette sui nazisti che facevano infuriare la polizia segreta. Alla fine degli anni Ottanta s’è riversato in massa per abbattere un altro regime. Oggi ha resistito all’occidentalizzazione forzata. Ha salvato il suo ometto del semaforo, l’Ampelmännchen, l’icona del signore simpatico e dignitoso che regolava il traffico dei pedoni a Berlino Est e ha imposto la torre della televisione come simbolo unificante della città unificata. Anche l’Est può offrire qualcosa al marketing oltre l’Ostalgie.

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