“Brum, brum: davanti ad Aschinger nell’Alex strepita il battipalo a
vapore. E’ alto quanto il piano di una casa e come niente infila i
pali per terra. Aria di neve, febbraio. La gente va in giro
infagottata. Chi ha una pelliccia la porta, chi non l’ha va senza.
Le donne hanno le calze sottili e devono avere freddo, ma sono
carine […] Vento ce n’è molto in Alex, all’angolo di Tietz soffia
maledettamente. Vento che soffia persino dentro le case e nelle
buche della metropolitana. Vien voglia di andare a nascondersi in
un’osteria, ma come si fa? Ti soffia anche nelle tasche dei calzoni,
belle vuote”.
Il brulichìo descritto nella
citazione è quello di Alexanderplatz ai tempi di
Alfred Döblin, nella Berlino alla fine degli anni Venti,
quella fase che molti storici descrivono come della quiete
prima della tempesta. La tempesta sarà l’avvento del
nazismo, ma la quiete, a quei tempi, non c’è mai stata. La
Berlino degli anni weimariani è stata una città caotica e
vitale come poche, piena di gente e di movimento,
effervescente sul piano artistico e una pentola in
ebollizione su quello sociale. Lustrini e rivoluzione,
povertà ed emancipazione, disoccupazione e repressione e,
sotto la coperta del grande gioco sociale, la vita di tutti
i giorni che i berlinesi consumavano soprattutto nel grande
piazzale di
Alexanderplatz. Alex per gli amici.
Ci è sembrato naturale
scegliere questo luogo d’incontro, storico e geografico, per
intitolare la rubrica che state leggendo e che sarà una
finestra quotidiana sull’Europa che cambia. Da qui gli
orizzonti si spingono verso Oriente, lungo le suggestioni
della vecchia carretera sovietica che da Berlino Est si
spingeva a Varsavia e poi a Mosca, lungo viali imperiali
ricostruiti dopo la guerra per allineare i popoli a un’idea,
a un regime, infine a un carcere. La carretera degli
inganni. Oggi queste strade raccontano storie nuove, altre,
che giungono ad Alexanderplatz assieme agli emigranti
attratti dal miraggio della nuova capitale europea. Arrivano
e si mescolano, nelle mille lingue che compongono questo
incredibile melting pot che riesce a sopravvivere agli
scontri di civiltà, di interessi, di abitudini e costumi.
Finché durerà, varrà la pena adi raccontarlo.
Ma
Alexanderplatz è anche la piazza della delusione, per chi ci
arriva oggi con le note di Milva e Battiato nelle orecchie:
“Alexanderplatz, auf Wiedersehen, c’era la neve, faccio
quattro passi a piedi fino alla frontiera”. Alex non è una
piazza bella, ma è molto, molto berlinese. Anche Berlino non
è una città bella. E’ affascinante, ma il fascino è sempre
nascosto nelle pieghe dei difetti. L’ondata delle
ricostruzioni si è fermata a Potsdamerplatz, o sulla
Friedrichstrasse e i grattacieli che nei piani degli
architetti avrebbero dovuto proiettare Alex nel Ventunesimo
secolo sono rimasti schizzi su fogli di carta. Qui, nel
Novecento, il popolo ha sempre detto la sua. Negli anni
Dieci sbarcava il lunario con mille mestieri. Negli anni
Venti giocava alla rivoluzione rossa. Negli anni Trenta
fabbricava le barzellette sui nazisti che facevano infuriare
la polizia segreta. Alla fine degli anni Ottanta s’è
riversato in massa per abbattere un altro regime. Oggi ha
resistito all’occidentalizzazione forzata. Ha salvato il suo
ometto del semaforo,
l’Ampelmännchen, l’icona del signore simpatico e
dignitoso che regolava il traffico dei pedoni a Berlino Est
e ha imposto la torre della televisione come simbolo
unificante della città unificata. Anche l’Est può offrire
qualcosa al marketing oltre l’Ostalgie.
(c)
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