E
povera Germania. Di lì a pochi anni, il nuovo ordine mondiale calerà
sul paese la propria mannaia, spezzandolo in due parti: la
Repubblica Federale ad Ovest, libera e capitalista, sotto il
controllo di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia; la Repubblica
Democratica ad Est, sotto il ferreo giogo comunista dell’Unione
Sovietica. La cortina di ferro scenderà lungo il confine interno e
un altro giornalista e scrittore d’eccezione, Enzo Biagi, ci
racconta la nascita del Muro di Berlino nel suo libro Germanie del
1976, inserito nella prestigiosa collana La Geografia di Biagi che
impreziosì le edizioni di Rizzoli. “Finii dalle parti
dell’Alexanderplatz, a cercare invano, nel buio tra le macerie,
l’ombra degli eroi romanzeschi di Döblin. Non c’erano più gli
avventurosi straccioni e le birrerie dalle quali uscivano fumo di
sigari e suoni di chitarre e di fisarmoniche, ma solo la composta
tristezza di qualche passante, marito e moglie, coi vestitucci
dozzinali, e un bambino, tra le braccia, addormentato”. La Berlino
divisa di Biagi è assai diversa dalla Berlino marziale di Mandillo:
“Quel paesaggio è profondamente mutato. Pochi giorni dopo Ulbricht
dava un ordine, e i Vopo piantavano i paletti e alzavano il filo
spinato e le torrette di osservazione, muravano le finestre degli
edifici sul confine, bloccavano ogni uscita. Cominciava da quel
momento la vera storia della Repubblica Democratica”. E per Berlino
Ovest, quella di un dorato isolamento: “Se dalla RDT è impossibile
uscire, non è semplice neppure entrare. Ho impiegato quasi un’ora
per i controlli di polizia. Bisogna denunciare anche la macchina
fotografica, ed è proibito introdurre giornali. Una guardia, con un
aggeggio munito di specchi ispeziona perfino il telaio
dell’automobile. Non si sa mai”.
L’esperienza collettivista, l’illusione di inventare l’uomo nuovo, non riuscì ai comunisti, così come non era riuscito ai nazisti anni prima. La straordinaria notte del 9 novembre 1989, gli eventi che portarono quasi casualmente all’apertura dei varchi di frontiera tra le due Berlino restano impressi nella memoria di chiunque li abbia vissuti, direttamente o attraverso le immagini televisive di un mondo ormai globalizzato. Sarà un segno dei tempi che a fornirci la descrizione più viva delle macerie morali (e industriali) della Germania comunista non sia, questa volta, un letterato ma un manager d’eccezione, innamorato della scrittura e della Germania. Franco Tatò, all’indomani della caduta del Muro, venne incaricato dalla Treuhandanstalt, l’organismo incaricato della privatizzazione e della gestione di tutte le aziende della ex-Repubblica Democratica, di presiedere il Consiglio di sorveglianza di un’azienda del settore elettronico, la Elektro-Physikalische Werke (Epw) di Neuruppin, maggior produttore di circuiti stampati dell’Est europeo. L’azienda sarebbe dovuta passare ai privati. Andò male e la chiusura fu inevitabile, ma per il manager italiano fu un’esperienza comunque entusiasmante nel vivo del processo di transizione dall’economia socialista a quella di mercato che caratterizzò i primi cinque anni della Germania riunificata. Ne venne fuori un bel libro, Autunno tedesco (1992), ripubblicato tredici anni dopo con una prefazione retrospettiva e con un nuovo titolo, meno brutale: Diario tedesco.
Ecco la descrizione dell’archeologia industriale che il comunismo tedesco lasciò in eredità alla nuova Germania: “Una serie di edifici sgangherati a più piani, alcuni di dimensioni enormi, quasi tutti non più vecchi di cinque anni, cui si affiancano innumerevoli baracche, nate per essere provvisorie e poi diventate definitive: ecco la Epw”. Nuovo e vecchio si mescolano nella grande fabbrica addormentata: “Le officine per gli apprendisti dispongono di poche macchine, per giunta vecchissime. Tutto odora di chiuso e di stantio: le poche persone che incontriamo non stanno facendo nulla. Dappertutto disordine, confusione e disinteresse. Il capannone dell’automazione è quasi vuoto. Lungo i lati sono disposte alcune macchine arcaiche. Non c’è la minima traccia di elettronica. Una dozzina di giovani operai sembrano non sapere cosa fare. Ci guardano con stupore, ma senza grande interesse”. Più che una descrizione sembra l’inventario di un fallimento, l’incontro fra socialismo e capitalismo già destinato a morire su un binario morto. La fredda penna del Kaiser Tatò tratteggia con pochi schizzi la dura realtà che spegnerà, di lì a pochi anni, i facili entusiasmi della riunificazione.
Negli anni più recenti si deve però registrare un vuoto nella letteratura di viaggio italiana, un vuoto al centro dell’Europa. La Germania sembra non interessare più, la Berlino riunificata, con le sue crisi, le sue angoscie e anche le rinnovate speranze non ha più i suoi cantori italiani. Manca un vero romanzo del dopo Muro, o un libro che sappia scandagliare il cuore palpitante della capitale ritrovata. I Borgese e i Solari sono stati sostituiti da Vladimir Kaminer e dalle sue pazze rock-band che riempiono di balalaika le notti underground del quartiere Mitte. La Berlino del Ventunesimo secolo parla ormai la lingua dei suoi nuovi immigrati capaci di raccontarla con la passione e l’entusiasmo che fu degli italiani nei secoli scorsi.
Per scrivere ad Alexanderplatz: pmennitti@hotmail.com
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