La
Germania di Hitler, alleata sul piano geopolitico e militare,
diventa la casa di tutte le virtù. Come si evince dalla penna pur
brillante del giornalista di guerra Enrico Mandillo che nel suo
Fronti. Attraverso l’Europa in guerra (1942), così descrive la
fede cieca del popolo tedesco nella vittoria militare: “A quattro
anni di distanza, ho rivisto la Porta di Brandeburgo e il viale dei
Tigli. I festoni, le bandiere, le gale che decoravano allora le
strade di Berlino in occasione delle Olimpiadi non ci sono più. Ma
nell’aria di questo mitissimo morir d’ottobre è l’attesa della selva
di svastiche e di tricolori dei giorni della vittoria”. Non sarà un
buon profeta, Mandillo: “La stessa attesa è nei volti. Nessuna gioia
scomposta, nessun fragore di peana, nessuna di quelle scritte che
inghirlandavano le mura delle caserme londinesi quattro mesi fa
(“Direzione: Berlino”, “La Germania è moribonda”, “Arriveremo noi,
tommies del tale o talaltro reggimento, a dare a Hitler il colpo di
grazia”, “Andremo a stendere i panni sulla linea di Sigfrido”,
ecc.). Ma la folla che accalca i ritrovi pubblici o va
frettolosamente verso il lavoro o la casa, ha negli occhi gravi, ma
sereni, l’attesa, certa, della vittoria. Nei discorsi con l’uomo
della strada è la stessa certezza”. La narrazione si fa marziale, la
punteggiatura esorta alla fede, anche questo serve a raccontare un
paese ingabbiato nelle maglie dell’ideologia. E bisognerà attendere
la tragica fine del secondo conflitto mondiale per ritrovare
racconti di un paese più reale, purtroppo sepolto dalle macerie.
Della
Germania post-bellica abbiamo memoria per le tante foto
ingiallite che ritraggono città distrutte, scomparse sotto
cumuli di detriti. Il giornalista (e scrittore e pittore)
Virgilio Lilli si aggira per conto del Corriere della Sera,
alla fine degli anni Quaranta, in una Colonia spettrale che
ritrae nel suo libro di viaggi Penna vagabonda
(1952): “Colonia quando ci arrivai era la regina delle città
fracassate dalla guerra. Io ho visto Hiroshima, ho vissuto
fra le rovine di Hiroshima un mese. Ebbene, al paragone di
Colonia, Hiroshima era una città intatta. Povera Colonia!”.
Dal ritmo marziale di Mandillo si passa alla crudezza
neorealista di Lilli: “Di salvo, a Colonia, non c’era che il
fiume, il Reno. Ma la sola acqua, intendiamoci. I ponti
erano spezzati in due o come strappati a morsi, gli argini,
le rive, i lungofiumi apparivano maciullati. La città era
una prateria di mozziconi di case, una aratura di detriti,
un marasma di rottami. Povera Colonia!”. E ancora: “La
rovina di Colonia aveva perfino una sua opulenza, tanto era
ricca. Dire sfasciata è niente; dire smascellata è niente;
dire sventrata è niente; flagellata, massacrata, macellata,
niente, niente. C’è una sola parola tedesca, dura come un
colpo di cannone o di mazza: Kaput. Solo a Colonia si poteva
capire il significato di questo massiccio e cupo vocabolo:
Kaput. Povera Colonia!”.
Per scrivere ad Alexanderplatz: pmennitti@hotmail.com
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