Una
silenziosa frenesia, non troppo distante da quella che si può
osservare oggi negli aeroporti e nelle stazioni ferroviarie della
Germania. Ma non era il silenzio, né la conversazione “ferroviaria”
di rondinelle e passerotti ad attirare la rumorosa combriccola dei
poeti del futurismo italiano, che negli anni Dieci e Venti elessero
Berlino a simbolo dell’ideale futurista europeo. La modernità
avanzava e s’incarnava nella vita dissoluta ed euforica delle
metropoli. Al di là dell’Atlantico brillava la nuova stella di New
York, la città che iniziava a sfidare il cielo con i suoi palazzi
verticali e che ribolliva di vita e passione e spettacolo e
innovazione. Di qua, nella Vecchia Europa, tenevano il ritmo Londra
e Parigi, ma era Berlino la nuova scommessa, allora come oggi la
punta di diamante della modernità che provava, per la prima volta, a
farsi globale. Ovvio allora che i poeti della frenesia, dell’eterno
movimento, del rumore purché fosse, incrociassero Berlino e il suo
caos, mirabilmente descritto qualche anno più tardi nella sua
versione stracciona postbellica, e con toni futuristici, da un
romanziere d’eccezione come Alfred Döblin. Per intanto, negli anni
Dieci, Filippo Tommaso Marinetti dava questa interpretazione di
Berlino e delle relazioni fra italiani e tedeschi, in un’intervista
rilasciata a Gubello Memmoli per il Giornale d’Italia: «Guarda
Berlino: è una meravigliosa città futurista, priva di ruderi, di
difensori di ruderi e di passatisti. […] Bada che questo non vuol
dire che io abbia una considerazione sconfinata per Berlino. Razza
tedesca inferiore razza italiana. Assolutamente. Essa è priva della
nostra forza creatrice. Ma lodo Berlino perché vorrei che si
favorisse in tutti i modi la modernizzazione di Roma”. Velocità e
cambiamento, sguardo sempre rivolto al futuro, ieri come oggi. E il
catalizzatore di tutte le accelerazioni era il semaforo che dominava
il flusso di traffico nella Potsdamerplatz, descritto nel testo
Sensibilità futurista della Potsdamerplatz di Berlino: «La
Potsdamerplatz di Berlino era già trent’anni fa un palpitante poema
parolibero col suo meccanizzato Polizei distributore di direzioni e
lasciacorrere semaforico dominatore di queste correnti».
E
tuttavia sarebbe sbagliato inquadrare la Berlino d’inizio
secolo solo nella sua crescente dimensione urbana. La voglia
di natura non abbandona i tedeschi neppure quando, strappati
alle loro foreste, sono obbligati a rinchiudersi nei grandi
casermoni d’impronta prussiana. La via di fuga è sempre lì,
dietro l’angolo. E Berlino offre due posti: il Grunewald e
il Wannsee, la grande foresta e l’immenso lago a sud-ovest
della città. Furono questi i luoghi delle prime gite fuori
porta, questi gli ambienti che rappresentarono la
bell’epoque berlinese. E anni dopo rappresentarono il
giardino di casa dei berlinesi occidentali, nei decenni
della città divisa, quando il Grunewald era tutte le foreste
e il Wannsee era tutti i mari, giacché dalla città isolata
da chilometri di muro e filo spinato, si poteva fuggire solo
con molte difficoltà. E ancor oggi l’ampio spazio naturale
racchiuso nella zona sudoccidentale di Berlino attira i
cittadini in cerca di refrigerio dalle afe estive, laddove
il residenziale quartiere di Zehlendorf cede il passo alle
tranquille atmosfere bucoliche del lago e della foresta,
mentre castelletti imperiali annunciano la vicinanza della
città della corte, la Potsdam di Sansoucci e di Federico il
Grande.
Già
nel 1909, un siciliano burbero e scontroso almeno quanto lo
sono i berlinesi, ci raccontava con stile da flaneur lo
spettacolo di una metropoli in costume da bagno. Giuseppe
Antonio Borghese, giornalista, saggista e romanziere di
grande rinomanza, descrisse nel libro La nuova Germania
la Berlino balneare: “Dal solstizio d’estate in poi Berlino
s’è traslocata sul Havel, e sul punto più meraviglioso del
Havel, a Wannsee, dove i tramonti d’ambra cadono nell’acque
più lenti di un crepuscolo boreale e la riva bassa e lontana
si disegna intorno al golfo tondo come un sopracciglio
intorno a un vasto occhio glauco. Il treno, i tram, i grandi
omnibus-automobili tozzi e goffi, sobbalzati nella corsa
come pachidermi in fuga, vomitano sulla spiaggia del lago
tutta quella gente che ha un marco per andare e tornare”.
A
Borghese, quest’inizio di turismo di massa, seppure su scala
cittadina, non andava proprio giù. Lo vediamo arricciare il
naso e storcere la bocca con lieve disgusto di fronte alla
città che, alla domenica, si appropriava della campagna,
invadendola e violentandola: “Per più di un chilometro si
sono recisi vecchi ed incolpevoli tronchi, e s’è creata una
spiaggia larga due volte un gran viale, così morbida e fina
da non sfigurare in confronto alla sabbia di Viareggio. La
gente si accampa alla peggio senza alcun rispetto umano o
divino; sulla riva o tra gli alberi del pendio, si spoglia
salvando il pudore con la giacchetta penzoloni fra i denti,
indossa un cencio qualunque che per convenzione si chiama
costume da bagno, e si precipita, schiamazzando, nell’acqua
che brulica una umanità repugnante”. Negli stessi anni il
disegnatore berlinese Henrich Zille ci regalerà bozzetti
molto più indulgenti verso i bagnanti del Wannsee.
Ma il
romanziere siciliano sembra anticipare il delizioso sarcasmo
che accompagnerà, qualche decennio più tardi, le descrizioni
di un nume sacro della letteratura da viaggio mondiale come
l’inglese Evelyn Waugh, segno che il distacco dal resto
d’Europa è ormai colmato e gli italiani che viaggiano e che
raccontano sono in grado di far sognare i propri lettori
rimasti a casa. La Germania, così, esce dalle nebbie del
mito nordico e diventa una terra più vicina della quale si
possono conoscere virtù e debolezze. I giornali che
pubblicano supplementi di viaggio vanno a ruba, i racconti a
puntate diventano poi libri, il genere decolla anche in
Italia. Verrà la guerra, con la sua carica partigiana, a
inscatolare i racconti nella gabbia ideologica.
Per scrivere ad Alexanderplatz: pmennitti@hotmail.com
(c)
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