Viaggiatori italiani in Germania / 2 - L'incubo doganale
di Pierluigi Mennitti
[17 lug 07]


Tutt’altri problemi si trovò ad affrontare, venti secoli dopo, Luigi Arnaldo Vassallo, giornalista e caricaturista, che fondò nel 1878 con Federico Albanese il Messaggero di Roma e portò, nell’ultimo decennio dell’Ottocento, il Secolo XIX di Genova ad essere una delle testate più prestigiose d’Italia. Con lo pseudonimo di Gandolin, scrisse nel 1889 Il pupazzetto tedesco (pubblicato da Treves nel 1908) descrivendo l’impatto con le dogane del Reich germanico. La frontiera, la dogana, l’aspetto algido e severo degli ufficiali ha sempre inquietato gli animi dei viaggiatori, almeno sino alla caduta delle barriere avvenuta alla fine del secolo scorso con l’incedere dell’Unione europea.

Nel 1889 Vassallo dissimulava con ironia l’eterna preoccupazione di avere un bollo scaduto, una bottiglia di vino di troppo, una somma di denaro sospetta: «E’ alla stazione di Basilea che le mie valige fecero la gradita conoscenza del doganiere tedesco. La mima dell’Argentina s’era scordata di insegnarmi il gesto relativo al doganiere, così che io, per non parere ineducato, mentre il doganiere frugacchiava tra le mie camicie, non seppi fare altro che recitargli uno squarcio di un suo compatriota, di Heine: “Ah, brutto scemo ignorante! Che cosa vai cercando nella mia valigia? Non ci troverai niente. Ho roba di contrabbando, sissignore, ma è tutta nascosta nel mio cervello. Ivi ho merletti più stupendi assai di tutti i punti di Bruxelles e di Malines, ma guai se li metto fuori, perché ti pungerebbero le mani. Nella mia testa porto dei gioielli, le insegne regali dell’avvenire, i sacri vasi del tempio del nuovo iddio, del grande ignoto! E c’è più d’un libro nella mia testa! Posso garantire che essa è un nido ove brulica e pispiglia tutta una nidiata di libri da sequestrare”. Veramente, nel caso mio, quest’era una spacconata solenne, perché nel cervello non avevo niente”.

In verità l’apparato statale tedesco ha sempre ispirato un sentimento ambivalente nel viaggiatore italiano, da un lato intimorito dalla burbera severità dei funzionari (siano essi dietro un bancone delle poste o delle ferrovie o degli uffici comunali o delle dogane), dall’altro affascinato dall’efficienza e dalla professionalità che permette di sbrigare pratiche con grande rapidità. Nei primi anni del Novecento, per il viaggiatore la Germania era il suo universo ferroviario. Le città erano le loro stazioni.

E così Pietro Gustavino, giornalista, poeta e politico (fu deputato nelle fila dei liberali costituzionalisti) descriveva questo mondo laborioso nel suo Lettere da Bayreuth (1907): “La precisione, l’ordine, la pulizia, la serenità, per così dire, del servizio ferroviario di questi paesi, sono realmente degni di ammirazione e, se fosse possibile, ahimè!, anche di imitazione. Qui non fischi, non polverume, non gomitate di facchini, non grida di personale, non urla di viaggiatori, non suoni di campanette, non confusione, non frastornamento di nessuna specie. Il treno arriva e riparte tranquillo, come sopra un olio; i viaggiatori scendono e salgono in un attimo; i biglietti sono verificati e staccati lungo il treno; nessun fastidio, nessuna noia, nessun intoppo. Le stazioni simbolizzano la pace idilliaca; rondinelle e passerotti svolazzano sotto le tettoie e fanno conversazione sui fili del telegrafo; i manubri degli scambi luccicano come congegni di orologeria; nessuna portiera di carrozzone schiaffeggia il narratore neuroastenico”.

 

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