Tutt’altri problemi si trovò ad affrontare, venti secoli dopo, Luigi
Arnaldo Vassallo, giornalista e caricaturista, che fondò nel 1878
con Federico Albanese il Messaggero di Roma e portò, nell’ultimo
decennio dell’Ottocento, il Secolo XIX di Genova ad essere una delle
testate più prestigiose d’Italia. Con lo pseudonimo di Gandolin,
scrisse nel 1889 Il pupazzetto tedesco (pubblicato da Treves
nel 1908) descrivendo l’impatto con le dogane del Reich germanico.
La frontiera, la dogana, l’aspetto algido e severo degli ufficiali
ha sempre inquietato gli animi dei viaggiatori, almeno sino alla
caduta delle barriere avvenuta alla fine del secolo scorso con
l’incedere dell’Unione europea.
Nel
1889 Vassallo dissimulava con ironia l’eterna preoccupazione
di avere un bollo scaduto, una bottiglia di vino di troppo,
una somma di denaro sospetta: «E’ alla stazione di Basilea
che le mie valige fecero la gradita conoscenza del doganiere
tedesco. La mima dell’Argentina s’era scordata di insegnarmi
il gesto relativo al doganiere, così che io, per non parere
ineducato, mentre il doganiere frugacchiava tra le mie
camicie, non seppi fare altro che recitargli uno squarcio di
un suo compatriota, di Heine: “Ah, brutto scemo ignorante!
Che cosa vai cercando nella mia valigia? Non ci troverai
niente. Ho roba di contrabbando, sissignore, ma è tutta
nascosta nel mio cervello. Ivi ho merletti più stupendi
assai di tutti i punti di Bruxelles e di Malines, ma guai se
li metto fuori, perché ti pungerebbero le mani. Nella mia
testa porto dei gioielli, le insegne regali dell’avvenire, i
sacri vasi del tempio del nuovo iddio, del grande ignoto! E
c’è più d’un libro nella mia testa! Posso garantire che essa
è un nido ove brulica e pispiglia tutta una nidiata di libri
da sequestrare”. Veramente, nel caso mio, quest’era una
spacconata solenne, perché nel cervello non avevo niente”.
In
verità l’apparato statale tedesco ha sempre ispirato un
sentimento ambivalente nel viaggiatore italiano, da un lato
intimorito dalla burbera severità dei funzionari (siano essi
dietro un bancone delle poste o delle ferrovie o degli
uffici comunali o delle dogane), dall’altro affascinato
dall’efficienza e dalla professionalità che permette di
sbrigare pratiche con grande rapidità. Nei primi anni del
Novecento, per il viaggiatore la Germania era il suo
universo ferroviario. Le città erano le loro stazioni.
E così
Pietro Gustavino, giornalista, poeta e politico (fu deputato
nelle fila dei liberali costituzionalisti) descriveva questo
mondo laborioso nel suo Lettere da Bayreuth (1907):
“La precisione, l’ordine, la pulizia, la serenità, per così
dire, del servizio ferroviario di questi paesi, sono
realmente degni di ammirazione e, se fosse possibile,
ahimè!, anche di imitazione. Qui non fischi, non polverume,
non gomitate di facchini, non grida di personale, non urla
di viaggiatori, non suoni di campanette, non confusione, non
frastornamento di nessuna specie. Il treno arriva e riparte
tranquillo, come sopra un olio; i viaggiatori scendono e
salgono in un attimo; i biglietti sono verificati e staccati
lungo il treno; nessun fastidio, nessuna noia, nessun
intoppo. Le stazioni simbolizzano la pace idilliaca;
rondinelle e passerotti svolazzano sotto le tettoie e fanno
conversazione sui fili del telegrafo; i manubri degli scambi
luccicano come congegni di orologeria; nessuna portiera di
carrozzone schiaffeggia il narratore neuroastenico”.
Per scrivere ad Alexanderplatz: pmennitti@hotmail.com
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