La Tav europea nasce senza l'Italia
di Pierluigi Mennitti
[11 giu 07]


Sabato scorso è stato il giorno dell’inaugurazione. E come tutte le “premiere”, festoni, palloncini, discorsi ufficiali e champagne (in questo caso anche un po’ di sekt) fanno da contorno ai primi cigolii sulle rotaie. Se non fossimo all’inizio del Ventunesimo secolo, nell’era dei voli low cost che trasferiscono migliaia di persone al giorno da un capo all’altro dell’Europa in poche ore, potremmo anche immaginare le locomotive che sbuffano, lasciando le stazioni di partenza, portandosi appresso il sogno del progresso e dell’avvenire. E infatti di binari si tratta, di stazioni ferroviarie, non di aeroporti e aereoplani. Ma, anche se il ricordo di foto ingiallite richiama (e riconnette) al passato, sempre di futuro si tratta, anzi di presente: e non di treni a vapore ma di velocissimi treni ad alta velocità.

Da oggi il cuore dell’Europa è ancora più irrorato. Di uomini, di merci, di idee che viaggiano a tempo ridotto tra Parigi e Stoccarda e tra Francoforte e Parigi. Ci sono voluti anni e dibattiti per mettere d’accordo gli orgogli e i budget di due grandi nazioni come la Francia e la Germania ma alla fine il compromesso è stato trovato. È costato 3,6 miliardi di euro, di cui 3 solo per la costruzione di nuove linee, il resto per l’ammodernamento di quelle esistenti. Da Parigi a Stoccarda (e viceversa) viaggia il Tgv francese, tre ore e mezzo di sferragliamento sulla linea diritta come un elastico tirato. Da Francoforte a Parigi (e viceversa) viaggia l’Ice, la corrispondente versione tedesca, il treno bianco con le strisce rosse: ci mette quattro ore ma il percorso è un po’ più lungo. Tutti contenti e tutti più vicini. La Vecchia Europa s’è messa due by-pass, non ha voglia di invecchiare, di perdere la sfida con il domani e si dota di una rete continentale in grado di competere con quella aerea.

Questa rete continentale si ferma alle Alpi. L’Italia ne resta fuori. Per mancanza di lungimiranza e progettazione. Per la complessità delle procedure burocratiche. Per la difficoltà di comporre diversi interessi. E, soprattutto, perché questo modello di sviluppo rapido viene contestato da una buona parte della politica, quei partiti dell’estrema sinistra che tanto contano nel governo di oggi e nell’opposizione di ieri. Si dice che i costi non valgono la pena. Che è inutile fare in tre ore quello che si può fare in cinque. Che è sbagliato concentrare soldi e risorse su grandi progetti per lunghi percorsi e invece bisogna pensare ai percorsi brevi e di provincia dei pendolari. Un po’ di passatismo e un po’ di demagogia mentre le battaglie ambientaliste, che in Val di Susa bloccano una delle poche tratte che ci farebbe superare la barriera naturale delle Alpi e allacciare al network europeo, mirano più al blocco definitivo del progetto che alla ricerca di soluzioni condivise.

Così quell’Europa che con tanta compiacenza abbiamo raccontato stanca e affaticata, s’è messa a correre di nuovo. Anche sul treno, che è stato riscoperto come mezzo di trasporto paradossalmente anche perché più ecologico. Ma il treno veloce s’è fermato a Stoccarda. O a Lione. O a Barcellona e Madrid. E allunga le sue mire verso il nuovo Est, la Polonia, il Baltico, la Mitteleuropa dove si stanno costruendo oggi le nuove linee che aggiungeranno nuovi by-pass domani. Linee che rischiano di non passare dall’Italia: e questa volta a restare tagliati fuori non saremo solo da Eboli in giù.

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