Il 4 luglio è il giorno dell’indipendenza degli Stati Uniti
dall’Inghilterra. Più modestamente, da un anno a questa parte, per
gli italiani che vivono in Germania, è il giorno del riscatto
nazionale. Grazie a una sfera di cuoio. Non è la prima volta, e non
sarà l’ultima, che una comunità si riconosce come tale grazie alle
emozioni che il calcio sa offrire. La letteratura di genere è ormai
stata sdoganata e partecipa a pieno titolo alle grandi epopee dei
nostri tempi. Dai libri al grande schermo, le sfide pallonare
riempiono il desiderio di legittimazione nazionale, il bisogno di
identità, il gusto della conquista. Meglio vincere un derby che una
guerra: è più divertente e meno cruento, anche se gli hooligans
provano a confondere i piani. I tedeschi hanno riscoperto il
sentimento nazionale anche tornando a commuoversi al cinema per il
miracolo di Berna. E si sono consolati per il terzo posto nel loro
mondiale immergendosi nelle scene di Deutschland, ein Sommermärchen,
film-documentario girato negli spogliatoi della nazionale di
Klinsmann.
Noi, quel mondiale lo abbiamo
vinto. E la tappa del 4 luglio è stata fondamentale.
Westfalenstadion di Dortmund, semifinale. I riflettori sono
accesi e lo stadio pieno come un uovo. La Germania vive da
un mese le sue notti magiche: ha organizzato un mondiale
perfetto e ha ritrovato, partita dopo partita, una squadra
che temeva non all’altezza. La vittoria finale è il giusto
premio per il buon lavoro. Nessuno pensa davvero che possa
non accadere. Nessuno pensa che di fronte, questa sera di
Dortmund, ci sono i fantasmi di Città del Messico (1970) e
di Madrid (1982). Nessuno ricorda che questa classicissima
del calcio internazionale non ha mai lasciato ai tedeschi
buoni ricordi. Sarà una semifinale combattuta e tirata,
l’ennesima partita giocata fino all’ultimo secondo, finita
con i giocatori sulle gambe. Ma anche questa volta a restare
in ginocchio saranno i bianchi di Germania.
Gli azzurri ritrovano le forze
nei minuti supplementari. Come a Città del Messico. Grosso
sembra Boninsegna e Del Piero Rivera, il primo raccoglie
un’invenzione di Pirlo e gonfia la rete come faceva Bonimba.
Il secondo corre follemente al fianco di Gilardino, gli
suggerisce il passaggio e piazza alle spalle del portiere
avversario il kappaò finale. Un piatto destro che ricorda
quello di Rivera. Come a Madrid. L’urlo di Grosso si
sovrappone a quello sfrenato di Tardelli, la gioia
fanciullesca di Del Piero ricorda quella incredula di
Altobelli. Le sensazioni di chi è allo stadio o guarda la
partita nei dieci, cento, mille ristoranti italiani di
Germania rimandano a tempi antichi, quando l’immigrazione
era una ferita che non si rimarginava e la nostalgia di casa
non si curava con pochi euro sui voli low-cost.
E’ la magia ma anche
l’illusione del calcio. Gli italiani dimenticano di avere
mogli e mariti tedeschi, figli misti, di parlare quasi
perfettamente la lingua e di sentirsi ogni giorno più
europei in un paese non più straniero. Per una notte, la
notte più importante, ritornano per gioco e per convinzione
gli steccati di una volta, spaghetti contro crauti, mafia e
nazismo, poveri ma belli e ricchi un po’ tonti. Gli
ospitanti sono per una notte affranti e un po’ meno gentili.
Gli ospitati irriverenti come se dovessero riscattarsi da
chissà quali umiliazioni secolari. Dura, appunto, lo spazio
di una notte. Il mattino dopo, però, per noi ha ancora un
bel sapore. Andremo a Berlino a vincere la coppa.
Per scrivere ad Alexanderplatz: pmennitti@hotmail.com
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