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  L'ALTRA FACCIA DELLA NEW ECONOMY

Negli Stati Uniti
cresce l'onda
dei
“Netslaves”

di Pierluigi Mennitti

Non è tutto oro quel che luccica nel mare dorato della new economy. L’affermazione potrebbe apparire fin troppo banale, ma in un paese come il nostro, che si lancia nelle mode a testa bassa, è forse un po’ meno banale. Fino a qualche settimana fa il tema della new economy sembrava appannaggio di pochi economisti che tentavano di sensibilizzare il mondo politico italiano sulle opportunità della nuova era e sulla necessità che l’Italia si attrezzasse in fretta per recuperare il ritardo accumulato. Nel giro di pochi giorni, di new economy parlano tutti. E, come spesso accade, i neofiti si dilungano sulle meraviglie del nuovo eldorado. I politici, in particolare, da tempo alla ricerca di temi fascinosi sui quali cimentarsi, citano la new economy a ogni pie’ sospinto. D’Alema troneggia su tutti. Dai cancelli della Fiat a quelli della Silicon Valley il passo è stato breve. Ma la sostanza ne risente: slogan privi di contenuto e, cosa grave per il capo di un governo, di proposte concrete. Basti pensare che un mese fa il Consiglio dei ministri ha rigettato l’ipotesi di equiparare, dal punto di vista fiscale, l’editoria elettronica a quella tradizionale. Chi fa informazione su Internet è soggetto a un’Iva del 20 per cento a fronte del 4 per cento dell’editoria su carta. Tra il dire e il fare c’è una dissonanza che deriva dall’assenza di analisi e di progetti su quel che serve.

Sul tema del lavoro, poi, la forbice tra quanto matura sul campo e quel che propone la legislazione è incredibile. Agli operatori della net economy, naturalmente portati a non avere orari e luoghi fissi, tocca nel migliore dei casi un contratto da metalmeccanico. La figura simbolo dell’era industriale, ritratta amabilmente dalla matita satirica di Altan, molla la chiave inglese, afferra un pc portatile e si catapulta col teletrasporto (di telelavoro neanche a parlarne) nell’era telematica. Ma anche sul versante imprenditoriale la nostalgia dell’Ottocento regna sovrana. E così, in mancanza di contratti ad hoc, ai nuovi occupati vengono proposti - quando va bene - contratti di collaborazione continuata privi di quelle garanzie che uno Stato sociale come quello italiano ancora richiede.

Anche su questo versante gli Stati Uniti ci vengono in soccorso. L’esperienza americana è molto più avanti di quella europea e i problemi che oggi si affrontano dall’altra parte dell’Atlantico sono gli stessi che, probabilmente, ci troveremo ad affrontare noi tra qualche anno. Il sito www.netslaves.com è una raccolta di storie vere di web-workers sedotti e abbandonati dalla cittadella della new economy. Gente che ha lavorato per le più spregiudicate aziende tecnologiche, immobile per 14-16 ore davanti a un monitor, in garage trasformati in uffici, in pochi metri quadrati chiusi in separé di legno. L’era della net economy vede salire alla ribalta migliaia di baby-miliardari semisconosciuti, ritratti festanti nelle classifiche di “Forbes” e “Fortune”. Ma per pochi che ce la fanno, la strada è lastricata dei tanti che ci rimettono le penne. Come Cindy, casalinga in crisi che mette a disposizione le sue qualità di conversatrice e diventa la star di una chat-line di CyberAmerica a 15 dollari l’ora, prima di essere silurata per necessità aziendali (ristrutturazione interna a seguito del bilancio). O come Zorn, ex manager Ibm, coinvolto nei progetti fasulli di una software house texana, che perde tempo, ingegno e denaro nel tentativo di confezionare programmi che l’azienda non venderà. Queste e altre storie sono state raccolte in un libro, “Net Slaves, True Tales of  Working the Web”, scritto da due giornalisti free-lance, Bill Lessard e Steve Baldwin, veterani della Rete. Frutto di un lavoro di due anni, fatto di ricerche sul campo e di e-mail arrivate sul sito, Lessard e Baldwin tracciano una mappa dei losers del web, raccontando le speranze frustrate di chi si avvicina al nuovo mondo. Non è tutto oro quello che luccica, ma quasi in ogni storia c’è un lieto fine. I Netslaves espulsi da società più o meno affidabili, hanno messo a profitto la loro esperienza, diventando essi stessi direttori di microimprese individuali. Cindy è la moderatrice di una sua comunità virtuale di sole donne accomunate dal problema di aver divorziato con mariti “Internet-dipendenti”. Zorn, smaltita la rabbia verso i suoi ex dipendenti, ha optato per un più serio lavoro di consulente software per medie e piccole imprese. Insomma, se c’è mobilità, anche gli schiavi sono un po’ meno schiavi. E magari, un giorno, anche padroni di se stessi.

pmennitti@hotmail.com

 

NETSLAVES
(le storie
dei forzati
del web)

www.net
slaves.com

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