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  L'ALTRA FACCIA DELLA NEW ECONOMY

Se Silicon Valley
in italiano si
legge Manchester

di Vittorio Macioce

Piove a Genova, mentre gli industriali italiani ragionano sul futuro della net economy. Piove per quasi due giorni al convegno della Confindustria. Ci sono D’Alema e Berlusconi che si contendono la simpatia del pubblico. Ci sono D’Antoni e Cofferati divisi quasi su tutto. E poi ci sono gli imprenditori, innamorati delle nuove frontiere dell’economia. Parlano, e nella platea e sul palco del Carlo Felice, risuona più o meno sempre la stessa voce: “La net economy non gradisce le regole. Flessibilità, libertà di assumere e licenziare, contratti non rigidi, tempi di lavoro da contrattare di volta in volta, ampi spazi di manovra”. Ma resta qualcosa in sospeso, che può essere rappresentato parafrasando un libro di Raymond Carver, padre della letteratura minimalista americana: “Di cosa si parla quando parliamo di lavoro?”. E’ un dubbio non da poco e riguarda tutti coloro che bazzicano e campano lavorando su Internet. L’economia della rete è ormai un affare quotidiano. C’è chi investe capitali sulla rete e chi ci lavora, come dipendente, consulente, socio, libero professionista, con una regolare busta paga o in nero, con le stock option o uno stipendio che arriva quando arriva. Se arriva. I sindacati hanno risposto rispolverando i vecchi libri, con figure professionali di un passato remoto. Lo schema è semplice. I tecnici del computer, i maestri dell’hardware, possono tranquillamente essere inquadrati come metalmeccanici. Per chi gestisce i contenuti, disegna le pagine web, si apre un bel contratto di lavoratori del commercio.

Gli imprenditori rispondono: “Questa è roba da Ottocento”. S’infuria Emma Mercegaglia: “Ci vuole coraggio – afferma – e da tutte le parti. La nuova economia premia il rischio. Rischia chi investe il capitale e rischia anche la forza lavoro. Liberalizziamo”. Fedele Confalonieri dice che se non c’è flessibilità neppure nella net economy allora è finita. Guidalberto Guidi, presidente del servizio studi di Confindustria, ripete che per sfruttare al massimo il potenziale economico è necessario ripensare all’attuale legislazione del lavoro. Innocenzo Cipolletta si dice certo che quelli che oggi vengono definiti lavori atipici – part-time, tempo determinato, lavoro in affitto o a domicilio – diventeranno ben presto la norma. “L’importante – spiega – è lavorare. Non il contratto con cui si lavora”.

Frammenti di discorsi che possono anche avere un senso, che lasciano però lo spazio ad un piccolo, forse irrilevante, dubbio: “Non è che mentre i sindacati pensano al modello fordista del metalmeccanico classico, gli industriali subiscono il fascino di una rivoluzione economica molto più antica che rimanda a nomi come Manchester o Birmingham, alle fabbriche di due secoli fa?”. Non mancano gli esempi, in questa Internet economy, di una certa tendenza nelle aziende italiane a confondere flessibilità con precarietà. Il primo modello rappresenta la strada per superare lo schema fordista e si porta in seno l’idea di un nuovo tipo di lavoratore, il professionista indipendente che trasforma la propria forza lavoro, il proprio talento, in capacità d’impresa, che investe su se stesso, sulla propria intelligenza, sulle proprie idee, sulla possibilità di cambiare: libero, intraprendente e ben pagato. Il lavoratore del Ventunesimo secolo. Il secondo concetto, quello del precario, ci riporta invece a tutt’altri scenari: pochi soldi, orari di lavoro massacranti, nessuna garanzia di veder ben valutato il proprio bagaglio culturale e professionale, trattato sempre come una risorsa non fondamentale, facile da sostituire, senza autonomia di scelta.

Andiamo a vedere cosa accade nei call center, dove si gestiscono le relazioni con i clienti per le fasi di vendita e assistenza post-vendita. In Italia sono 60mila le persone che svolgono questo lavoro e la tendenza è verso una crescita robusta di questa attività. Il ritmo di lavoro è definito dalle telefonate in arrivo. Il telefonista è completamente dipendente dal sistema di smistamento telefonico. I compiti sono definiti a priori con orari, flussi, regole prescritte e non modificabili. Bisogna soddisfare i clienti, ma rispettando rigidi vincoli di efficienza. E’ necessario massimizzare il volume delle telefonate gestite, ma il risultato va raggiunto con un impiego di risorse limitato. In particolare contenendo il numero degli operatori. E’ un ritmo imposto dalla tecnologia, come avveniva un tempo, secoli fa.

maciovit@libero.it

 

L’INTERVENTO
DI GUIDI

(al convegno
di Genova)

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LA RELAZIONE
DI GALLI

(il direttore
del Centro
studi
Confindustria)

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