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  COMMENTI

"Chiediamo perdono".
La sfida profetica
di papa Wojtyla

di Giuseppe Sacco

La parola “sconcerto” basta appena a definire il sentimento prodotto in molti osservatori “laici” dalla richiesta papale, umile e solenne al tempo stesso, del perdono divino per le colpe commesse oggi e in passato dai Cristiani. Sconcerto che da un lato è utile a dare un’idea, seppur vaga, della smisurata audacia del gesto voluto da Giovanni Paolo II, dall’altro mostra tutti i limiti, di comprensione e di parola, in cui il conformismo oggi prevalente costringe l’uomo e la donna occidentali. In una logica puramente politica e di potere – tipica delle “società competitive” dell’Occidente, e che si  finisce per indebitamente attribuire anche a chi è invece mosso dal sentimento religioso - è chiaro che qui s'excuse s'accuse. Il “chiediamo perdono” viene visto come un segno di debolezza, e il “perdoniamo” addirittura come prova di imbelle impotenza. Inevitabilmente, si è osservato, l’offerta spontanea di un gesto volto alla “purificazione della memoria” offre ai molti nemici della Chiesa l’occasione di vedere confermate le antiche accuse, e tentare di alzare il prezzo, con l’eterno ritornello che non ci si è pentiti abbastanza. Come se l’invocazione fosse rivolta a loro, e non – come invece è – a Dio, da cui solo può venire il perdono!

Lo sconcerto degli osservatori “laici” è dunque fondato. Ai loro occhi, il Papa è soltanto un Principe della Chiesa; un Principe che, mettendo in dubbio la legittimità etica della propria ascendenza, ferisce gravemente la stessa Istituzione a lui affidata. Un comportamento impolitico che lascerà dietro di sé, come ha scritto Montanelli, solo “un cumulo di macerie”, non ”soltanto della Curia, ma della Chiesa”. O – aggiunge sempre Montanelli, che non è un laico qualunque – “almeno di quella che (…) siamo abituati a considerare tale”.Il punto è tutto qui. Duemila anni dopo il sacrificio del corpo di Cristo, Giovanni Paolo II osa rischiare il sacrificio del corpo della Chiesa, della Chiesa istituzione, per preparare una nuova resurrezione spirituale, e quindi per poterne scagliare più forte ed incontaminato il messaggio nell’arido cielo del nuovo millennio. E’ una mossa che risponde assai puntualmente alle caratteristiche e alle esigenze del mondo in cui viviamo, un mondo in cui le istituzioni globali (come è stata sinora la sola Chiesa Cattolica) stanno proliferando, mentre l’unità e le finalità della polis umana appaiono smarrite. A chi è sconcertato dal gesto del Papa sfugge la dimensione altissimamente profetica dell’iniziativa di Giovanni Paolo II; un’iniziativa che basterebbe da sola ad assegnargli un posto di assoluto rilevo nella millenaria storia della Cristianità, e che tende ad offrire un’etica rinnovata all’uomo scristianizzato di oggi. Un uomo che la scienza ha reso forte, la creatura più forte dell’universo, ma che è privo dei criteri guida per sapere quale uso fare della propria forza.

Naturalmente, l’estrema audacia del gesto pontificio pone tutti coloro che si proclamano credenti di fronte ad una sfida assai difficile, quella se seguire o meno i Cattolici in questo ritorno al contenuto messianico del messaggio cristiano. Da questa sfida sono investiti in primo luogo gli altri Cristiani. Ma è soprattutto nel dialogo a distanza con i Musulmani che appare in tutta la sua forza la dimensione profetica della richiesta di perdono. Il Papa non ha esitato a porre le Crociate tra gli errori della Cristianità, ma così facendo ha posto alla coscienza di ciascun islamico la questione della accettabilità di fronte al Padre comune della Jihad, la guerra santa. Questa ebbe inizio quando gli  Arabi invasero il Nord Africa, spazzando via con la violenza la Cristianità allora fiorente. E, di fronte al “perdoniamo e chiediamo perdono” di Giovanni Paolo II, il mondo islamico sembra aver percepito l’enormità di questa nuova sfida. Non a caso, esso ha reagito nel modo più serio – tacendo.

g.sacco@agora.stm.it

 

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