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  ITALIA TRA OLD E NEW ECONOMY

Grandi famiglie addio.
Con D'Amato
si volta pagina

di Alessandro Napoli

“Moderato a me? Ma vallo a dire a qualcun altro ...”! Che i ceti medi produttivi e il mondo dell’impresa che non vive di aiuti pubblici e sussidi di vario genere non fosse affatto “moderato” lo sospettavamo. Vivendoci in qualche modo dentro possiamo anzi dire che ne eravamo certi. Da Montebelluna, provincia di Treviso e capitale mondiale della produzione di scarpe da sci, fino a Santeramo, provincia di Bari e area-leader sul piano internazionale nella produzione di salotti in pelle, il nemico da battere presentava sempre le stesse caratteristiche e si manifestava sempre con le stesse insegne.

I problemi? Uguali in un luogo e nell’altro, e sintetizzabili con la difficoltà, ma anche con l’orgoglio, di fare impresa “nonostante”. Nonostante la palla al piede di un sistema iper-regolamentato che dilata il potere discrezionale delle burocrazie, con questo incentivando la corruzione nei pubblici uffici. Nonostante infrastrutture assolutamente scadenti. Nonostante la persistenza di mercati dei beni, dei capitali e del lavoro rigidi quanto pochi altri sull’intera faccia del pianeta. Nonostante una giustizia civile che procede a passo di lumaca e per questo incapace di offrire tutele e garanzie adeguate al diritto di libera iniziativa in campo economico. Nonostante livelli di prelievo fiscale peggio che scandinavi, cui corrisponde però una qualità dei servizi pubblici di poco migliore rispetto a quella dei paesi dell’Africa subsahariana. Nonostante una diffusa incapacità di comprendere le ragioni del mercato e della concorrenza. Nonostante la persistenza, garantita da leggi nuove e vecchie, di privilegi monopolistici nel settore dei servizi di pubblica utilità. Altro che moderazione, questo è un contesto che semmai fa venire la voglia di essere rivoluzionari anche a compassati e benpensanti padri di famiglia quali sono in maggioranza i piccoli e medi imprenditori italiani. Nordest rampante e Sud emergente si sono così trovati, in questi mesi in cui “i saggi” di Confindustria hanno chiesto agli imprenditori italiani chi volessero al vertice della confederazione, dalla stessa parte. Da una parte molto poco “moderata”. Dalla parte del blocco sociale dei non garantiti, dalla parte di chi voleva che l’organizzazione non venisse fagocitata in giochi di potere, dalla parte di chi tira la carretta e non da quella di chi alla carretta si aggrappa per mangiare il mangiabile o da quella di chi vi si piazza sopra stabilendo autoritativamente come redistribuire fra diversi aspiranti la mercanzia che si trova sulla carretta stessa.

Al vertice di Confindustria è stato designato Antonio D’Amato. La cosa non piace, ovviamente, alla Cgil (ancorché molto prudenti siano state le reazioni della classe dirigente di quel sindacato), né piace all’aristocrazia imprenditoriale del Nordovest (ma anche qui le reazioni sono state  finora equilibrate). Fatto sta che alla testa della maggiore organizzazione imprenditoriale italiana andrà un industriale meridonale che esprime però gli interessi di una ben più ampia platea di imprese, tutte accomunate dal fatto che il ricorso a incentivi non è per esse vitale. Ci sono le piccole e medie industrie del Nordest per le quali la realizzazione di una strada è più importante di un contributo pubblico e il mercato internazionale più importante del mercato interno. Ci sono i capitani delle imprese della nuova economia, molto più interessati a uno Stato che investa in formazione che a cavare direttamente quattrini dall’erario. Ci sono quelle imprese che, fatti i classici quattro conti, hanno scoperto che le promesse di semplificazione degli iter burocratici di autorizzazione e cofinanziamento di nuovi investimenti enunciate nelle procedure della programmazione negoziata non hanno funzionato (è di pochi giorni fa la notizia del fallimento del contratto di programma dell’area torrese-stabiese). Ci sono imprese research-intensive (chimica, biotecnologie) i cui progetti d’investimento sono stati penalizzati dall’applicazione dei criteri della 488. Last but not least: nella coalizione che ha designato D’Amato ci sono verosimilmente anche uomini vicini a Mediobanca.

Se così fosse, la svolta sarebbe davvero epocale. Potremmo dire che l’era in cui via Filodrammatici sosteneva a qualunque costo le grandi famiglie per una diffidenza “strutturale” e per certi versi non immotivata nei confronti degli homines novi si è chiusa. L’istituto si apre al presente, se non al futuro. Il che significherebbe che, D’Amato o non D’Amato, il capitalismo italiano sta davvero cambiando pelle, assumendo qualche tratto meno provinciale. In definitiva, la designazione di D’Amato non è operazione “moderata”. Ha semmai un significato opposto, quello di segnale critico e di spinta riformatrice lanciati all’establishment che da anni comprime le straordinarie energie che attraversano e animano l’Italia. Per il momento è solo un segnale, ma non è un segnale come altri.

snapol@tin.it

 

CONFINDUSTRIA
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ANTONIO
D’AMATO

(il vincitore
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Sole 24 ore)

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ore.it/conf
industria/
presidente