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  EUROPA

Il gran rifiuto danese
mette in crisi anche
Svezia e Inghilterra

di Pierpaolo La Rosa

Non si può certo dire che l'euro stia vivendo un momento particolarmente fortunato: come se non bastasse la persistente debolezza della moneta unica europea - in balìa di dollaro e yen - ecco che il referendum di giovedì scorso attraverso cui la Danimarca ha espresso un no, secco e perentorio, al suo ingresso nella zona valutaria comune pesa come un macigno e pone legittime, inquietanti perplessità che investono le sorti dell'Unione economica e monetaria (Uem), il futuro dei mercati finanziari ed il delicato processo di costruzione di un'identità europea dai contorni finalmente chiari e definiti. Nonostante i sondaggi della vigilia lasciassero spazio ad un margine di incertezza, legato all'alto numero di indecisi, l'esito della consultazione referendaria è stato senza storia: la vittoria degli oppositori alla moneta unica è stata netta (53,1 per cento), mentre i sostenitori del sì hanno ottenuto solo il 46,9. Eppure, quando sei mesi fa il primo ministro danese, il socialdemocratico Poul Nyrup Rasmussen, indisse il referendum per l'adesione all'euro, il fronte del sì pareva in netto vantaggio su quello del no. A favore della moneta unica si sono infatti via via schierati i più importanti partiti di governo e opposizione, la stampa, il mondo economico e quello sindacale. Nello schieramento avverso, al contrario, è andata in porto un'inedita, sorprendente, variopinta alleanza tra formazioni politiche estremiste sia di destra che di sinistra, ambientalisti e nazionalisti, tutti impegnati in difesa della cara, vecchia corona danese.

Impostando una campagna elettorale centrata sui rischi derivanti da un'eventuale ingresso nell'euro (ridimensionamento di uno Stato sociale molto generoso, taglio delle pensioni, perdita di un tenore di vita tra i più elevati al mondo), i fautori del no hanno recuperato posizioni su posizioni vincendo così la loro battaglia. Dietro la netta affermazione del fronte ostile alla cosiddetta zona euro si cela però la paura dei danesi di perdere la propria identità nazionale, di buttare alle ortiche un sistema di protezione sociale benevolo che fornisce sussidi alle famiglie numerose ed ai disoccupati, oltre a garantire l'assoluta gratuità di sanità ed istruzione. Non è un caso, infatti, se la campagna in favore del no si sia ben presto trasformata in una vera e propria crociata antiglobalizzazione. Questo profondo disagio determinò, inoltre, l'altra clamorosa decisione di cui si rese protagonista la Danimarca nel '92, quando bocciò il Trattato di Maastricht impedendone l'entrata in vigore. Di fronte alla prospettiva di cedere quote di sovranità nazionale a organismi politici europei, considerati troppo distanti, la ricca ed opulenta Danimarca ha preferito proseguire per la propria strada. La sconfitta si è rivelata bruciante in particolare per il primo ministro Rasmussen, che aveva investito nella consultazione referendaria gran parte del prestigio personale e politico accumulato: "E' una disfatta mia e della linea che noi socialdemocratici abbiamo preso - ha commentato il premier danese, visibilmente deluso ed amareggiato. La democrazia ha parlato, il popolo si è espresso. I danesi si sono dimostrati contrari all'euro, non all'Europa".

Dal canto loro, i leader europei hanno provato a minimizzare quanto accaduto nel piccolo Stato scandinavo: il presidente della Commissione europea, Romano Prodi, dopo aver espresso il suo rammarico per l'esito del referendum, si è affrettato a precisare che l'integrazione europea andrà comunque avanti, con o senza i danesi. Il primo ministro francese, Lionel Jospin, si è spinto ben oltre dichiarando che "il peso della Danimarca nell'economia europea non è poi così rilevante". Al di là delle dichiarazioni di rito, solo il tempo ci dirà se il no danese rallenterà la stanca marcia dell'euro o, paradossalmente, la rafforzerà. Per ora prevalgono segnali contraddittori. Da un lato i mercati hanno reagito positivamente al risultato negativo del referendum (anche perché l'avevano ampiamente previsto). Dall'altro andranno valutate le ripercussioni in Svezia e Gran Bretagna, paesi in cui una parte dell'opinione pubblica si mostra euroscettica. Lo stesso premier svedese Goran Persson ha ammesso che il no di Copenaghen "eserciterà un'influenza sul dibattito interno nel nostro paese circa l'eventuale integrazione nell'Unione economica e monetaria". Come andrà a finire?

pplarosa@hotmail.com