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  CASA DELLE LIBERTA'

Il buonsenso liberale

di Giovanni Orsina

C'era una volta un'Italia liberale. Era liberale a sinistra, perché, defunto infine il comunismo, l'irrequieto Occhetto andava cercando ideologie nuove con l'affanno e lo struggimento stessi che lo spingevano a tentare ogni giorno una nuova pettinatura. Era liberale a destra, perché, squagliatisi la Dc e il Psi nei succhi di Tangentopoli, era rispuntato da tasche minoritarie quanto mai improbabili un gruppuscolo di intellettuali che, per decenni e vanamente, si erano esauriti predicando il verbo di pensatori dai nomi esotici come von Hayek, Friedman, Buchanan, oppure più domestici ma altrettanto ostici come Einaudi o Sturzo - troppe vocali il primo, e troppe consonanti il secondo.

Certo, questo liberalismo era un po' un'araba fenice, perché nell'affanno di acciuffarlo e calcarselo per benino sulle orecchie ciascuno lo ridisegnava come meglio gli piacesse - e liberale era diventato così perfino Gramsci, che poveretto quest'estremo insulto davvero non lo meritava. Ma soprattutto, quell'Italia liberale che c'era una volta è morta proprio piccolina. Seguendo l'esempio della migliore Dc, una volta agguantato il potere la sinistra ha deciso che l'egemonia culturale serve solo a chi sta all'opposizione, e ha smesso di interrogarsi su che cosa significhi oggi essere un postcomunista - o, se è per questo, anche un postsocialdemocratico. E seguendo l'esempio della migliore Dc, la destra ha capito che il povero von Hayek in questo paese non avrebbe mai beccato un voto, nemmeno dalla mamma, e ha parecchio moderato i suoi furori liberisti e libertari.

E così oggi, dopo non più di tre o quattro annetti scarsi di un liberalismo soltanto chiacchierato, e sfigurato per giunta dalla voracità ideologica della destra e della sinistra, ci vengono a dire che il liberalismo dev'essere rivisto, ripensato, aggiornato, come se l'Italia fosse sazia fino a crepare di individualismo e libertà. Scusatemi tanto, sarà pure un mio difetto, ma a me gli infanticidi non sono mai piaciuti. E questa fretta di seppellire il cadaverino liberale mi fa proprio venire il sospetto che questi becchini (absit iniuria verbis) così efficienti non vedessero l'ora di metter mano al piccone.

Mi volete dire che un patrimonio ideale non può mai stare fermo, che deve sempre essere rivisto, discusso, adattato alle necessità storiche e politiche della sua epoca? E chi lo nega. Mi dite che certo liberalismo italiano si è fissato nella ripetizione dogmatica di alcune formule? Ve lo concedo pure. E poi però vi chiedo subito: perdonatemi, ma in che paese vivete? Non vivete anche voi in un paese che, se non ci fossero stati quei quattro liberali apodittici, sarebbe ancora fermo all'economia di Keynes, alla sociologia marxista o, tutt'al più, strutturalista, alla politologia di Duverger, a Gramsci e alla Scuola di Francoforte? E non vivete anche voi in un paese che, nella concreta pratica politica, di quello che quei liberali apodittici sono andati dicendo se ne è sempre olimpicamente infischiato?

Se vivete anche voi in questo paese, proviamo allora a ricominciare da capo. Non vi piace certo "liberalismo dogmatico" che circola in Italia, e volete discuterne? Più che legittimo, per carità; per certi versi, non piace nemmeno a me. Ritenete che il nostro mondo proponga delle sfide nuove, "postmoderne", alle quali il liberalismo sia chiamato a dare risposte originali? Ottimo: parliamone. Ma non mi venite a raccontare che il liberalismo "dogmatico" in questo paese è vecchio, perché di quel liberalismo l'Italia non ne ha mai visto nemmeno un grammo. E poi, mi piacerebbe finalmente sapere quali siano le nuove frontiere intellettuali verso le quali dovrebbe spingersi il liberalismo del futuro. Perché dire che le società umane hanno bisogno di un patrimonio di valori superindividuali condivisi è cosa senz'altro ragionevole, con la quale personalmente sono pienamente d'accordo. E però, non mi sembra poi una grande novità.

Ancora: discutiamo pure dei valori e dei principi liberali, e di come debbano essere adattati al mondo "postmoderno". Cerchiamo di non dimenticare però, per amor di futurismo, che l'Italia non ha nemmeno cominciato ad affrontare una serie di problemi modernissimi. Ma le tasse le pagate? E la macchina, la guidate senza assicurazione? E l'avete mai cercato un lavoro? E avete mai avuto a che fare con la sanità e l'istruzione pubblica? Non c'è dubbio che la famiglia sia la principale fra le comunità, e che debba quindi essere salvaguardata. Ma lo sapete o non lo sapete che in Italia una percentuale abnorme di ultratrentenni continua a vivere nella famiglia di origine? E una comunità così blindata vi pare sana? Mi sembra tanto che qui da un lato ci si diverta a osservare le stelle, e dall'altro ci si preoccupi di porre rimedio a una disgregazione individualistica che, per tanti versi, e non tutti positivi, in Italia non c'è mai stata. Prima di tornare indietro, varrebbe forse la pena di andare avanti; e prima di pensare all'uovo di domani, mettere in padella quello di oggi. E scusatemi se sono banale - anche nelle metafore.

Veniamo alla politica. Leggo sui numeri passati di Interazione da un lato qualche manifestazione di giubilo per la convergenza Lega-Forza Italia, assimilata a un matrimonio culturale fra liberali e comunitari; dall'altro una frase a mio avviso particolarmente infelice dell'amico Ivo Germano, lieto che "la brama di costruire librescamente il perfetto elettore (...) [abbia] cozzato contro il riemergere e il riaffiorare di un patrimonio genetico della diversità, della differenza, del distinguo etnografico ed etologico". E, perdonatemi di nuovo, ma per come la vedo io non ci siamo proprio. Le convergenze culturali non precedono quelle politiche, le seguono. 

In altre parole: Lega, An e Forza Italia non si sono ricompattate perché hanno ritrovato un comune sentire ideologico e programmatico, ma perché Berlusconi negli ultimi due anni non ne ha sbagliata una, e si è perciò rafforzato tanto da mangiarsi Bossi e Fini - che invece, negli ultimi due anni, le hanno sbagliate tutte o quasi. Berlusconi, insomma, ha ottenuto per via politica il risultato che per tanti anni si è cercato di raggiungere per via istituzionale: ricompattare almeno una delle due metà politiche d'Italia. Finora lo ha ottenuto all'opposizione; e speriamo che riesca a conservarlo anche al governo. Perché se fra due anni, a valle di un successo elettorale del centro-destra, ci ritroviamo con un governo Fazio sostenuto dalla sinistra e dalla Lega, voglio proprio vedere che gran brindisi faremo al "patrimonio genetico della diversità, della differenza, del distinguo etnografico ed etologico".

Con questo, ovviamente, non voglio inneggiare alla Realpolitik, o negare che l'alleanza fra Lega, An e Forza Italia debba anche cercare un comune sentire politico e progettuale. Ma, se dovessi io stesso chiedermi quale possa essere questo comune sentire, temo proprio che finirei per ricadere su un programma minimo liberale. E qui il cerchio del mio discorso si chiude. Dire che il Polo può trovarsi d'accordo nel ridurre la pressione fiscale, nel facilitare la vita delle aziende, nel correggere la spesa pensionistica, nel rendere più dinamico il mercato del lavoro, nel riformare la scuola e la sanità secondo linee meno burocratiche e centralistiche, sarà pure produrre una monotona litania di banalità. E tuttavia, non riesco a togliermi dalla testa l'assurda convinzione che, a forza di queste banalità, l'Italia diverrebbe un paese più civile.

gorsina@luiss.it