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  HERLING, L'EREDITA'  RIMOSSA

I gulag come i lager.
L'ostracismo contro
Gustaw Herling

di Cristina Missiroli

Quando, il 5 luglio scorso, ha chiuso per sempre gli occhi a Napoli, sua città d'adozione, "l'Unità" e "il manifesto" non se ne sono neppure accorti. Ma Gustaw Herling di certo non si sarebbe stupito di un simile irrispettoso trattamento. Sarebbe forse rimasto più colpito dalla prima pagina della sezione culturale di "Repubblica", del tutto inaspettatamente a lui dedicata in quella triste occasione. Che l'intellighenzia di sinistra lo detestasse non era un mistero. Il suo nome è stato di fatto cancellato dalla vita culturale italiana per più di un trentennio. Eppure Herling era considerato, ormai da anni, una delle più celebri figure letterarie polacche e di fatto, dopo aver sposato la figlia di Benedetto Croce, Livia, ed essersi trasferito a Napoli nel 1955, era anche un italiano d'adozione. La fama e i riconoscimenti internazionali non gli sono mai valsi molto in Italia. Herling portava con sé un peccato originale che non poteva essere perdonato dal pensiero dominante italiano: considerava assolutamente equivalenti i lager nazisti e i gulag staliniani. E continuava a scriverlo, senza remore.

Nato il 20 maggio 1919 a Kielce, città della Polonia centrale, Herling debuttò in campo letterario alla fine degli anni Trenta, ancora studente, come acuto critico letterario. Prigioniero dei sovietici durante la Seconda guerra mondiale, per cinque anni visse nel lager di Kargopal. Dall'esperienza della prigionia nacque la sua opera più conosciuta, il libro "Un mondo a parte" pubblicato a Londra nel 1951. Si trattava della prima grande opera di letteratura sui gulag sovietici. Vent'anni prima dell'"Arcipelago Gulag" di Aleksandr Solzenicyn che oggi viene fatto studiare nelle scuole (o forse sarebbe meglio dire, in alcune scuole). 
"Un mondo a parte" fece gran scalpore ed entusiasmò il filosofo e premio nobel inglese Bertrand Russel che lo definì: "il libro più sconvolgente e meglio scritto sui lager sovietici". 

Ma proprio a quest'opera va ricondotta l'antipatia degli editori e della critica italiani nei confronti di Herling. La tesi fondamentale dello scrittore polacco era infatti chiarissima: e si basava sulla completa equiparazione della brutalità dei regimi (i "gemelli totalitari") nazista e sovietico. Scriverà più tardi Herling: "La differenza tra i due regimi riguarda i metodi di uccisione. E' chiaro che nei campi sovietici non si mandavano le vittime alle camere a gas, ma lo sterminio avveniva tramite il lavoro massacrante, il freddo, la fame, le percosse. Il risultato era lo stesso". Per quanto scontata e, in fondo banale, la tesi era fatta per irritare i salotti culturali italiani. Ed Herling fu di fatto messo al bando. Un ostracismo destinato a durare molto a lungo visto che ancora oggi le maggiori enciclopedie italiane quasi ignorano il suo nome. Le principali opere di divulgazione non gli dedicano alcuna voce autonoma: dall'Enciclopedia Zanichelli alla Grande Treccani, dall'Enciclopedia Rizzoli-Larousse al Dizionario della Letteratura del Novecento di Einaudi alla Grande Enciclopedia Utet, fino all'Enciclopedia della Letteratura Garzanti.

Solo due anni fa la Piccola Treccani dedicò una certa attenzione a Herling all'interno della voce dedicata alla letteratura polacca, definendolo come uno dei "migliori rappresentanti" della narrativa polacca dell'ultimo mezzo secolo. Per rimediare alla assenza di Herling dalle opere enciclopedie, di recente la Treccani ha annunciato che la biografia di Herling comparirà nell'aggiornamento del Lessico Universale Italiano. Con quarant'anni di ritardo. Geno Pampaloni, uno dei decani della critica letteraria italiana, è stato tra i primi a denunciare lo scandaloso silenzio. "Non so spiegarmi come sia possibile una cosa del genere - affermava nei giorni scorsi- visto che siamo di fronte ad un autore prolifico, di grande qualità, di fama mondiale e molto onorato nel suo Paese natale. Una pregiudiziale ideologica nei confronti di Herling? Non ne ho le prove, nè lo escludo. Certo è che ogni tipo di censura, anche indiretta, è condannabile". Avesse chiesto al diretto interessato, anche Pampaloni avrebbe avuto la sua risposta sul perché della censura. "E' il frutto - ripeteva spesso Herling - del silenzio imposto dall'intellighenzia comunista sulla mia opera. Hanno fatto di tutto per farmi sentire un lebbroso, ma non ci sono riusciti".

La cultura dominante italiana, insomma, non lo amava. E gli intelletuali militanti lo detestavano. Nemmeno tanto cordialmente. "Paese Sera", giornale vicino al Pci, arrivò a chiedere che "quell'anticomunista" fosse sbattuto fuori dall'Italia. Ma poi per fortuna furono i lettori italiani a sbattere "Paese Sera" fuori dalle edicole. Non è dunque un caso se per quarant'anni "Un mondo a parte" è stato in Italia un volume pressochè clandestino: stampato due volte ma introvabile nelle librerie, perchè non distribuito. Il libro, tradotto da tempo in numerose lingue, è arrivato nelle rivendite italiane solo nel 1994 e il merito è della Feltrinelli. Dopo la pubblicazione a Londra nel 1951, "Un mondo a parte" fu pubblicato dalla casa editrice Laterza nel 1957, su segnalazione della famiglia di Benedetto Croce, di cui lo scrittore polacco era genero. La casa barese scelse però di distribuirne pochissime copie, anzi quasi nessuna. Nel 1965 il libro fu ripubblicato da Rizzoli che si impegnò a non lasciarlo nei magazzini, "Ma anche allora si capì che non era aria", ha raccontato recentemente Paolo Mieli, oggi direttore editoriale della Rcs, a cui si deve un anno fa la rivelazione dell'ultima clamorosa censura di Einaudi ai danni di Herling. 

missiroli@opinione.it