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  HERLING, L'EREDITA'  RIMOSSA

"Ricordare, raccontare":
storia dell'ultima
censura comunista

di Gustaw Herling

Esattamente un anno fa la figura di Gustaw Herling balzò agli onori delle polemiche letterarie. Il caso scoppiò per la decisione della casa editrice torinese di non utilizzare la prefazione scritta da Herling per i "Racconti della Kolyma" di Varlam Salamov, capolavoro sull'universo concentrazionario sovietico. Questa censura divenne di dominio pubblico il 23 maggio 1999 quando Paolo Mieli sulla "Stampa" parlò del giallo della prefazione sparita: chiesta a Herling da Giulio Einaudi, e cancellata dopo la morte del noto editore. Quel che non era piaciuto ai vertici della casa editrice dello Struzzo era l'equiparazione tra la brutalità nazista e quella comunista. Sulla scia della polemica, la prefazione rifiutata - basata su un dialogo con Piero Sinatti e Anna Raffetto - ai "Racconti della Kolyma" è diventata nel giugno di un anno fa un volumetto dal titolo "Ricordare, raccontare" edito dalla nuova casa editrice "L'Ancora". Il testo - dove è esposta la tesi fondamentale dell'equivalenza tra gulag sovietici e lager nazisti - è preceduto da una nota di Herling e dal carteggio intervenuto tra la Einaudi e lo scrittore. Quello che segue è un brano tratto da questa ultima pubblicazione.

Nessuno mette in dubbio l'orrore del nazismo e dei suoi lager: il programma di sterminio era implicito nell'utopia razziale e nazionale che Hitler descrisse inMein Kampf. Dello sterminio nazista dubitano ora solo quattro pazzi. Per l'intelligencija di sinistra, ma non solo per quella, i "campi" sovietici erano invece un'altra cosa. Il giudizio parte dal presupposto che il comunismo non è un'utopia nazionale e razziale, ma un'utopia sociale. Quindi, ai sovietici, artefici della traduzione in realtà di questa utopia, si doveva in qualche modo riconoscere il diritto di commettere "errori": in partenza, la loro scelta era giustificabile, si trattava di realizzare l'utopia sociale. Pertanto agli orrori sovietici si annette un'importanza minore, stabilendo comunque una differenza di fondo: una cosa erano i lager nazisti, un'altra quelli sovietici.

Si tratta di un atteggiamento ampiamente diffuso e condiviso, almeno fino alla caduta del Muro di Berlino o, andando avanti nel tempo, fino alla recente pubblicazione del Libro nero del comunismo, accolta in Francia e Italia con grande clamore. In altre parole, gli intellettuali di sinistra sapevano dell'esistenza dei campi sovietici, ma affermavano che si trattava di un fenomeno assolutamente diverso da quelli nazisti.
Ricordo che qui a Napoli nel 1997 si è svolta una fiera del libro, Galassia Gutenberg, con una sessione dedicata alla mia opera. Fra i diversi oratori, un ottimo critico, il giovane Domenico Scarpa, parlò sul tema Lager e Gulag. Levi e Herling, scrittori della responsabilità. Scarpa ha saputo cogliere in modo estremamente dettagliato le analogie tra Se questo è un uomo di Levi e il mio Un mondo a parte.

Levi, probabilmente, non lesse il mio libro, ma questo non ha alcuna importanza; tuttavia, ciò che accadeva nei lager nazisti si verificava in un modo del tutto simile anche nei campi sovietici da me descritti. Eppure le affermazioni di Levi sul conto di Salamov sono estremamente riduttive: imputa all'autore una maturazione politica "scarsa e greggia"; ne definisce la statura morale "inferiore a quella dei corrispettivi che hanno combattuto il terrore staliniano, o che oggi denunciano i delitti compiuti in Africa e in Asia dalla civiltà occidentale". Vede nella sua disperazione il segno di una debolezza, di una resa totale che dimostra inoppugnabilmente come "mezzo secolo di disinformazione forzata possa snervare un'opposizione più del ben più feroce ed efficace terrore hitleriano [...]. La stessa asfissia politica che ha degradato il socialismo in Unione Sovietica ha degradato i suoi stessi oppositori".

Di recente, sul quotidiano "La Stampa" ho definito "regimi gemelli" quelli nazista e sovietico. Ho ricevuto parecchie lettere dei lettori, molte di queste indignate: come si osa mettere i due sistemi sullo stesso piano? E invece si può, facendo una distinzione fondamentale: in un modo si uccidevano i prigionieri ad Auschwitz, in un altro alla Kolyma. E' questa la sola differenza. Fondamentale è, invece, un'altra considerazione: per l'intelligencija di sinistra il comunismo ha le sue radici nell'Illuminismo, nel razionalismo europeo. Quindi, è un fenomeno politico da apprezzare, mentre non lo è il nazismo, che manifestava apertamente l'intenzione di sterminare certi popoli, certe razze, e faceva pure i nomi delle future vittime. Era un'utopia nazionale e razziale esplicita, mentre il comunismo era un'ideologia degna di rispetto, perché figlia appunto dell'Illuminismo. Si poteva quindi ammettere che, strada facendo, commettesse degli errori. In Polonia, la mia patria, tra i comunisti era popolare un detto: "Quando si taglia il bosco, volano le schegge".

Vorrei dire che per fortuna sta finendo un secolo maledettamente ideologico - così lo chiamo io. Per un lungo periodo gli intellettuali di sinistra hanno negato l'esistenza dei "gemelli totalitari" e questo è stato un pregiudizio per lo sviluppo di una matura coscienza storica. La differenza vera tra i due regimi riguarda i metodi di uccisione. E chiaro che nei campi sovietici non si mandavano le vittime alle camere a gas, ma lo sterminio avveniva tramite il lavoro massacrante, il freddo, la fame, le percosse. Il risultato era lo stesso. Salamov ha fatto chiaramente capire che avrebbe preferito morire piuttosto che soffrire per tanti anni alla Kolyma, non per caso definita "il crematorio bianco".

Tra i racconti di Salamov uno mi ha colpito particolarmente: Dolore. I piroscafi che arrivavano alla Kolyma erano l'equivalente - egli ha scritto - dei vagoncini, dei carrelli che ad Auschwitz portavano la gente alle camere a gas. Ha fatto un errore, Salamov. Ad Auschwitz non c'era nessun vagoncino. La gente veniva incolonnata e spinta direttamente nelle camere della morte. Ma Salamov se lo immaginava a questo modo. Comunque, erano gli stessi prigionieri dei lager sovietici, uomini come Salamov, a dire che il gulag era l'equivalente dei lager nazisti. E' quello che l'intelligencija progressista non ha voluto ammettere per tanto tempo.

Ho sempre presente la famosa polemica sui campi sovietici tra Sartre - un uomo che aveva un'alta stima di sé, ma che in nome di questa non poteva accettare di mentire - e Camus. Sartre fece un'affermazione che rimane esemplare: dei lager sovietici non si doveva parlare, perché gli operai di Billancourt non potevano perdere la speranza. Ora non è più così, da più parti si concorda sul fatto che i metodi erano diversi nei campi sovietici e nazisti, ma il risultato finiva per essere lo stesso. Ricordo un'intervista concessa qualche tempo fa a "I'Unità" da uno dei maggiori intellettuali italiani, Norberto Bobbio. Egli ammette di aver combattuto per anni l'idea di una parentela tra i due regimi. Oggi non gli è più possibile.