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  IL FATTORE H

La ivincita del "locale"

di Ivo Germano

Jorg Haider è un complicato errore politologico, o una efficace risposta ai rischi della globalizzazione? I Santi e gli eserciti, gli Stati-Nazione e le masse, nazionalismi e totalitarismi che nella storia delle ideee degli ultimi due secoli hanno operato come boe significative, per delineare ciò che era potabile e ciò che non lo poteva essere mai. Almeno fino al 1989 sono emerse due dorsali mediologiche ben definite: da un lato, l'efficacia della propaganda come stilismo della retorica sociale del potere. Si citi ad esempio l'ottimo e coerente saggio dell'antropologo francese Claude Rivière sulle "Liturgie politiche" del XX secolo; dall'altro, la strategia funzionale della persuasione socio-politica come valore differenziante fra la vecchia e ottocentesca "ismizzazione" del gioco politico e rappresentativo, con il risultato immediato dell'oblio della storia. Si fa qui riferimento al lavoro analitico dello studioso delle comunicazioni contemporanee Armand Mattelart nel saggio "La comunicazione-mondo".

Tale è il contesto, seppure sommariamente disegnato, che oscilla fra una fiducia "tecnica" negli strumenti della comunicazione mondiale e globale, calco preciso del paradigma dell'omonimo villaggio di Mc Luhan, e la possibilità di rinvenire forme di reazione e di attrito locali e particolari ad una così profonda e intricata ragnatela di messaggi ed informazioni. Occorre interrogarsi allora sul vantaggio reale o presunto di applicare una delle due prospettive al caso Haider. Se cioè il leader politico austriaco appartenga al livello folk o fantasy della politica, o, in caso contrario sia paragonabile ad uno statu nascenti dell'intrusione mediale fra il programma politico e partitico e la resa rappresentazionale.

In prima approssimazione, Haider pare dimotrare con le sue azioni che la globalizzazione, prima che un fenomeno economico, amministrativo e finanziario, sia un prodotto ipermediale e ultracomunicativo. In abito tradizionale, a fianco del figlio di Gheddafi, in grigio fumo di Londra, simile in tutto e per tutto ai paladini del management mondiale che abitano le stazioni ferroviarie e gli aeroporti, Haider contrassegna la mutevolezza cangiante dell'autorappresentazione di un personaggio politico e la multipolarità della percezione collettiva. Non per altro, la spettacolarizzazione del mondo si fonda sulla continua proliferazione di immagini dei leader politici che sempre più si impongono ai cittadini spettatori. Con il corollario che la conoscenza sia oggi aperta e possibile a tutti gli abitanti attraverso un nocciolo duro mediale che va dalla televisione ad Internet. Si tratta di una spettacolrizzazione che influenza dinamicamente la percezione dell'altro da sé, la realtà del legame sociale, il mondo delle comunità, il noi collettivo e personale presiede i repentini cambi di scena.

Si potrebbe avanzare l'ipotesi del massimo antropologo attuale Marc Augé, secondo il quale: "Si potrebbe quasi azzardare che la stessa storia è rappresentata mediologicamente come se fosse contenuta in un ben preciso formato, composto da un certo qual numero di immagini". Per quanto riguarda il "Dottor H", per utilizzare la metafora espressionistica presente nel titolo del saggio di Bruno Luverà, un buon esercizio ermeneutico per l'antropologo mediale che ben comprende la insussistenza di un unico universo sociale indifferenziato, al cui interno i valori individuali non sono condivisibili in modo uniforme, potrebbe essere incarnato dalla molteplicità funzionale della comunicazione politica di Haider.

Come leader politico di centro che guarda a movimenti di destra, Haider testimonia il rapido cambiamento intervenuto nelle società complesse e che può essere riassunto su due livelli: da una parte, esiste una crescente internazionalizzazione degli scambi e delle regole, ma al contempo, si registra il dato qualificante le ricerca di radici specifiche e di mantenimento delle differenze socio-culturali; dall'altra, invece, le strutture dello Stato-nazionale sono soggette a pressioni verso l'alto derivate dalla catena degli imperativi globalizati e contemporaneamente non possono sottostimare il forte richiamo proveniente dal basso nei confronti dello sviluppo strategico delle comunità locali. Ecco dunque la miscellanea di estrema solitudine del cittadino globale e di mediologia avanzata. La prima, esaminata dall'ultima rilessione di Zygmunt Bauman, secondo il quale siamo simili a "passeggeri di un aereo che si accorgono che la cabina di pilotaggio è vuota, e che la voce rassicurante del capitano era soltanto la registrazione di un messaggio registrato molto tempo prima". La seconda, appartiene alla metodologia di ricerca di Régis Debray. Per il filosofo francese, la mediologia è la neo-epistemologia della comunicazione, dal momento che investiga la mediasfera, ovvero un grande dispositivo di miti e riti che trasformano la statualità da pedagogia-sociale a iconosfera televisiva: "Ciò che gli americani e il pensiero piattamente progressista non arrivano a capire è che più il mondo degli oggetti e delle tecniche si mondializza, più il mondo dei corpi e dei cervelli si tribalizza, si localizza, ripianta radici". E, infatti persino il primo ministro austriaco Schuessel ha cambiato d'abito. Potere della videopolitica o che cosa?

ivogermano@inwind.it